Nord e Sud - anno III - n. 21 - agosto 1956

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna AN NO I II * N UME RO 21 * AGOSTO 1 9 5 6 • • Bibloteca Gino Bianco

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Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Bibloteca Gino Bianco

SOMMARIO Rosario Romeo Francesco Compagna N.d.R. Giuseppe D'Eufemia Carlo 1 Maggi Antonio Palermo Francesco Compagna Editoriale [ 3] La, storiografia politica marxista [5] Panorama postelettorale [ 38] GIORNAI,E A PIÙ VOCI Liberté, liberté chérie [52] Una Costituzione e due Corti costituzio1iali [56 J Banditi siciliani nella rivista di Sartre [ 60] << Dibattito sulla scuola >> [ 63] « Itinerari » [ 69] DOCUMENTIE INCHIESTE Augusto Graziani La svolta dell'industrializzazione [72] NOTIZIARIO BIBLIOGRAFICO [101] . . PAESI E CITTÀ Alberto Del Pizzo Un paese d'"4bruzzo: Càsoli [106] LETTERE AL DIRETTORE [ 120] RECENSIONI Enzo Carbone Geografia elettorale del Delta Padano [ 126] Un~ copia L. 300 • Estero L. 360 DIREZIONE E REDAZIONE: Abbonamenti 1 Italia annuale L. 3.300 semestrale L. l. 700 Estero annuale L. 4.000 eemestrale L. 2.200 Nord • Su~ e Nuova Antologia Italia annuale L. 5.500 Estero » L. 7 .500 Effettuare i versamenti !3DI C. C. P. n. 3/34552 intestato a Arnoldo Mondadori Editore • Milano Bibloteca Gino Bianco Napoli - Via Carducci, 19 - Telefono 62.918 . DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI Amministrazione Rivista Nord e Sud Milano - Via Bianca di Savoia, 20 Tel. 35.12. 71

Editoriale Noi siamo stati fra i pochi che, a un anno dal Congresso di Napoli Jella D.C., abbiamo dato, pur indicandone i limiti, un giudizio positivo sull'impegno di << iniziativa democratica>>per dare nel Mezzogiorno al partito di maggioranza nuovi quadri politici e nuovo slancio organizzativo~ Si voleva dire, con quel giudizio; che i democristiani avevano per lo meno offrontato il problema degli strumenti di una lotta politica moderna nelle regioni meridionali. Ma ora, passato un altro anno, si deve dire che quel problema non solo non sembra risolto, ma risulta dimenticato, abbandonato, contraddetto anclze. Che altro significa infatti l'atteggiame12to della l).C., dopo il 27 maggio, nei consigli comunali di tanti capoluoghi meridionali, per non parlare di Roma, del gran pasticcio siciliano e del!'atteggiamento della direzione nazionale? Che altro significano le chiusure a sinistra e le aperture a destra, sia pure effettuate con, i metodi che applicò a suo tempo Restivo e non con quelli che reclamavano Sturzo, Gedda e Lombardi? Che altro significa il tono gla4iatorio con cui si proclama di aver vinto le elezioni amministrative quando si sa bene che non è così? Ma non è soltanto dalla degradazione della politica democristiana nel Mezzogiorno che derivano i gravi motivi di preoccupazione che durante questo mese sono affiorati in noi, che pure dai risultati elettorali avevamo tratto indicazioni confortanti, se non rassicuranti. Ci sarebbe quasi da peri- .rare,stando a certi irrigidimenti e a certe negazioni, che la D.C. sia indifferente di fronte ai possibili maggiori sviluppi della crisi· comt-tni·sta,e che anzi preferisca lo status quo, un forte partito comunista che consenta le campagne elettorali tipo 18 aprile. Si veda per esempio come la propaganda della D.C. abbia insistito sui fatti di Poznan as.saipiù che sul rap'- porto Krusciov. Nei fatti di Poznan ..civede il co.vnunista che spara, essi somigliano a quelli di Berlino, ricordano quelli della Cecoslovacchia 1948; [3] BiblotecaGino Bianco

e perciò è giusto che se ne parli e che si invitino i cittadini a misu"rar~da essi il grado di «progressività» di quelle esemplart demo1 crazie che i co~ mttnisti hanno fondato al, di là della cortina. Ma ne( rapporto Krusciov c'è niolto di più. È questo rapporto che impone agli elettori e ai quadri comunisti un esame di coscienza, che denuncia una crisi e ne provoca un'altra, clie viene a conferire luce di verità e forza morale alla polemica e ali~ posizioni politiche dei democratici occidentali; e dimostra che alla « mi11acciacomunista>>si contrappone non tanto la <<diga>>della Democrazia Cristiana quanto l'alternativa della democrazia occidentale moderna. La crisi dei comunisti è un interesse di tutta la democrazia italiana, ttn interesse che non può essere subordinato al 'particolare' di questo o quel partito. I democratici cristiani sono ora di fronte a responsabilità anche più gravi di quelle che hanno gravato su di essi negli anni trascors~. li ci sembra perciò opportuno rilevare che l'obiettivo democristiano di un 1iuovo 18 aprile, se perseguito con tanta caparbia ostz~nazione,potre~be risttltare in netta antitesi con l'esigenza democratica di provocare, non infrenare, i maggiori sviluppi alla incipiente crisi elettorale e politica def P.C.l. Di qui anche il 11ostrodeciso dissenso dall'atteggiamento democriJtiano nei confronti del P.S.l. Noi non siamo fra quelli che riass1,1,mono tutti gli attuali -problemi della nostra società nel!'esigenza di una incondizionata apertura a sinistra, intesa più come liquidazz~onedel bistrattato centrismo che come operazione di consolidamento e sviluppo democratico. Ma qui dobbiamo chiederci anzitutto se il rifiuto passivo di una politica attiva nei confronti dei socialisti oggi non finisca col consentire domani all'on. Togliatti la possibilità di una campagna elettorale in cui egli possa agitare il motivo della volontà dell'on. Nenni respinta dalla cattiva volontà della D.C. Si vuole forse far rifluire un'altra volta verso i comunisti, i voti che stanno rifluendo verso i socialisti? Si teme forse più l'alternativa socialista della minaccia comunista? Si vogliono ricostituire le condizioni di un nuovo e più ampio fronte popolare,che poi potrebbe essere un fronte ghibellino, e quindi la riapparizione dello « storico steccato», scongiu~ rato da De Gasperi come il maggiore dei pericoli per il nostro Paese? (E 12oisianzo _controtutti colorò che consapevolmente o inconsapevolmente rischiano di farlo risorgere, questo « storico steccato », siano essi democristiani clericali o laici giacobini). [4] Bib.loteca Gino Bianco ..

DIECI ANNI DI CULTURA IN ITALIA La storiografia politica marxista • di Rosario Romeo I La storiografia politica è certo uno dei settori della cultura italiana che più vivamente hanno avvertito la << svolta » del 1945. E ciò, non solo per la caduta dei divieti polizieschi e dei controlli che gravemente avevano pesato sul lavoro degli storici, particolarmente esposto a censure di ordine ideologico e politico; ma anche per i nuovi problemi e interessi che eventi di tanto rilievo nella storia del Paese dovevano suscitare e proporre a chi si volgeva a meditare sulla genesi dello Stato italiano e dei suoi ordinamenti democratici, sul processo della formazione unitaria e sui suoi legami con il secolare sviluppo della società e della storia italiana. Questa vivace sensibilità alla nuova situazione politica ha largamente caratterizzato la produzione storiografica dell'ultimo decennio, con risultati diversi, che possono e devono essere variamente giudicati. Che se per un verso è segno positivo questa capacità di tradurre i problemi reali della presente vita italiana in termini di cultura, che vuol sempre dire valutazione dell'empirica realtà alla luce di una piu approfondita coscienza dei valori in gioco, e superamento dell'immediato scontro delle passioni nella più chiara luce della ragione; è anche vero che troppo spesso quel lavoro di mediazione culturale è avvenuto in modo assai torbido e incompleto, col risultato che non di rado si è finito per derivare la soluzione di problemi specifica- • Nell~ pagine che seguono vengono presi in considerazione alcuni volumi che sono sembrati più rappresentativi delle tendenze metodologiche e degli indirizzi di ricerca di questa corrente storiografica. Ciò spiegherà perchè si sia taciuto di altri lavori, non meno importanti, ma che a chi scrive sono apparsi meno significativi in . tal senso. [5] Bibloteca Gino Bianco

mente culturali non già dal terreno che è loro proprio, ma da eventi e tendenze di ordine immediatamente pratico e politico. Esempi cospicui di tali commistioni offrono appunto, specie nei primi anni dopo la Liberazione, le vicende della storiografia politica di tendenza marxista (alla quale soltanto, e limitatamente agli studi medievali e moderni, si restringono le nostre considerazioni) e della sua fortuna nel mondo culturale italiano. Risale infatti agli anni successivi al 1945-46, e specie al 1948, quel certo senso di insoddisfazione verso lo storicismo idealistico che è all'origine di molte « conversioni » al marxismo di studiosi formatisi nel periodo precedente, o di giovani che allora si affacciavano alla vita degli studi; e sarebbe vano cercarne nella stessa cultura la spiegazione, quando ancora la produzione storiografica marxista si limitava al libro del Sereni sul Capitalismo nelle campagne, ed appena com,inciavano ad apparire i Quaderni del Gramsci, le riviste Società e Rinascita, e qualche saggio o edizione di argomento buonarrotiano. Naturalmente, questo discorso non riguarda quegli studiosi, e ve ne furono, che al marxismo giunsero dopo· una seria e consapevole rimeditazione di quella dottrina, che e certo ben lontana ancor oggi dall'aver perduto la sua forza di attrazione e il suo significato culturale. Ma per i più la ragione vera del crescente interesse che già allora si avvertiva per la storiografia marxista, e del relativo declino dell'idealismo storiografico, va vista invece altrove: e cioè nelle fortune politiche del partito comunista e negli insuccessi, invece, delle formazioni liberali, nei quali pareva di scorgere la riprova dell'insufficienza della stessa cultura a cui esse si richiamavano. Questa cultura sembrava inetta ad intendere la nuova realtà politica dell'Italia metà cattolica e metà comunista che veniva rivelandosi; mentre la riconquista della libertà faceva apparire più lontani gli interessi e la tensione morale che avevano animato la storiografia antifascista dell'idealismo. Ora, nessun dubbio che un legame effettivamente sussista tra le forze impegnate nella lotta politica e gli indirizzi di pensiero ai quali esse si richiamano: ma non è chi non veda il pericolo di una così sbrigativa identificazione delle sorti di posizioni culturali assai complesse e ricche di significato con le vicende della lotta politica, destinate assai spesso - per quanto grande possa essere stato il loro appello alla passione dei contemp?ranei - a rivelarsi prodotto di situazioni contingenti, e ad acquistare magari un ·ben diverso valore di fronte a una più distanziata considerazione. Lo 1 pseudo storicismo di coloro che ad ogni tratto si son (6] Bibloteca Gino Bianco

precipitati a trarre deduzioni di carattere universale dall'es ito di un' elezione politica (e d'altronde, non abbiamo letto, su una rivist a cattolica, un articolo dal titolo: La rivelazione cristiana e il 7 giugno?), a meditare sul destino dell'eredità culturale dell'ormai condannato Occiden te ispirandosi all'ovvio confronto con la caduta dell'Impero romano, a mo bilitare l' « arte>>contro la «barbarie», a cantare il de profundis sulla secolare democrazia americana a ogni nuovo exploit di un Joe McCarthy, a indicare in Palmiro Togliatti il naturale e riconosciuto <<erede>>di Ben edetto Croce; questo atteggiamento mentale assai volgare e semplicistico ha avuto una larga parte nel determinare un certo numero di conversioni al marxismo, motivate non da una meditata accettazione di quella dottrina , ma da una sostanziale corruzione dello spirito critico e della stessa cosc ienza morale, che si concreta nell'abdicazione del senso individuale della responsabilità davanti ad una presunta <<necessità storica>>, analoga nel f ondo alla rinunzia decadentistica di fronte allo spettro psicologico ( 1 ) ( che è poi ciò che spiega la facile commistione, al•la quale così spesso si è assistito, di atteggiamenti decadentistici e marxismo). Tutto ciò non va detto certamente per infirmare in blocco la ·produzione storiografica marxista italiana, che invece ha dato, specie negli ultimi anni, contribut i di notevole valore; ma solo per indicare, nello stretto ,nessoche si e detto di tale cultura con la recente vita politica, la fonte, oltre che di taluni suo i pregi, anche di certe deficienze e scadimenti dal piano scientifico a quello banalmente polemico e propagandistico. D~ questa genesi anzitutto pratico-politica del neo-marxismo ita liano è prova, fra l'altro, lo scarsissimo interesse che la storiografia marxista ha rivelato finora per i periodi più antichi, e in genere precede nti alla rivoluzione francese e al Risorgimento. Praticamente nulla la p artecipazione marxista alla ripresa di studi medievali nell'ultimo decen.nio (la posizione politica del Sapori non si rispecchia nella sua produzione sc ientifica, che continua sulle vie già percorse, e con tanto lustro, nel periodo precedente); ( 1 ) Cfr. a questo proposito le acute osservazioni, ispirate alla t radizione del migliore storicismo, di E. CRAVERI CRocE, Adolfo Omodeo. Personalità e linguaggio, in Spettatore Italiano, IX, 1956, p. 113. l 7 J Bibloteca Gino Bianco

e scarsissimo anche il contributo agli studi di storia mòderna. Accanto ai pregevoli apporti recati alla storia economica e sociale del Mezzogiorno nel '700 da Pasquale Villani e Rosario Villari, vann·o soprattutto ricordati gli studi recentissimi di Giuliano Procacci (2 ). Il Procacci, dopo due saggi sulle origini della borghesia francese che prestano jl fianco a critiche assai gravi (3 ), ha ora dato alla luce un volume che riprende su più larga scala quei problemi, riunendo due saggi dedicati rispettivamente alla struttura e alle classi sociali di Normandia nel secolo XVI e alla diffusione del protestantesimo nella Guyenne (4 ). Una maggiore prudenza e maturità, un meno pretenzioso dottrinarismo e un più attento scrupolo di ricerca han~ no qui permesso al Procacci di segnare un netto passo avanti rispetto ai suoi studi precedenti, e di realizzare - specie nei primi due saggi - una ricerca di notevole difficoltà tecnica e che per molti rispetti sembra apportare (con riserva del giudizio dei ·più competenti in questo argomento) contributi nuovi e importanti. Il processo di concentrazione della proprietà terriera in Normandia durante la prima metà del secolo è studiato dal Procacci sul modello della classica analisi marxista del processo di accumulazione primitiva del capitale in Inghilterra. E in effetti la Normandia fa in questo eccezione fra le altre regioni francesi, pei- la larga misura in cui vi si verificarono i fenomeni delle << chiusure » di terre e di boschi, del1'accentramento della proprieta nelle mani di elementi del << peuple moyen>>, della espropriazione di molti piccoli « laboureurs », respinti poi nella folla dei poveri e mendicanti (5 ). Riserve e dubbi suscita invece il lavoro la dove il Procacci, nel tentativo di adeguarsi con rigorosa fedeltà agli insegnamenti del Marx, finisce per svelare quella vena di pesante dottrinarismo che costituisce il limite più grave della sua storiografia. Così, ( 2 ) Mentre queste pagine erano già in corso di stampa, è uscito il volume di G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna. I: Le origini del Risorgimento 1700-1815, Milano, 1956. ( 3 ) G. PROCACCI, Per la storia delle origini del capitalismo in Francia, in Società, VII, 1951, pp. 3-34; IDEM, Lotte di classe in Francia sotto l'ancien régime (1484-1559), ivi, VII, 1951, pp. 416-443. ( 4 ) G. PRocAccI, Classi sociali e monarchia assoluta nella Francia della prima metà del secolo XVI, Torino, 1955. ( 5 ) Cfr. anche M. BLocH, Les caractères originaux de l'histoire rurale française, nuova ed., Paris, 1952, p. 210 sgg. [81 Bibloteca Gino Bianco

appare inaccettabile il tentativo di intendere la funzione storica del cet o mercantile normanno sulla scorta del noto concetto marxista del capita - lismo commerciale come formazione parassitaria cresciuta nel grembo de l sistema feudale, e quindi strutturalmente solidale con esso. A riprova di ciò il Procacci cita solo fatti male interpretati o asserzioni destituite d i qualsiasi prova. Il rifiuto dei « drapiers et bonnetiers » di Rouen a1la proposta di limitare l'importazione di lana spagnola, che i1 Procacci ved e motivato dall'interesse di mercanti importatori incuranti dello sviluppo del - la produzione nazion~le (6 ), può invece più logicamente intendersi come politica di fabbricanti ( « drapiers et ·bonnetiers »), interessati a non veder limitati i propri rifornimenti di materia prima al solo prodotto nazionale, più caro e meno conveniente se, nonostante il costo dei trasporti, l'indu - stria francese si era sempre rifornita sul mercato spagnolo. La storia dello svilup·po industriale più maturo dì tutti i paesi è ricca di siffatti contrasti tra manifatturieri e agricoltori, e magari tra fabbricanti di prodotti finit i e fabbricanti di semilavorati (p. es. tra tessitori e .filatori di cotone). Al - trettanto inconsistente l'argomento del mancato impiego di mendicanti, vagabondi ecc. nelle manifatture, quando è noto che assai spesso ciò si doveva al rendimento estremamente basso e antieconomico di tale mano d'opera più o meno forzata; e quando il mancato impiego di quegli ele - menti non può dimostrare se non che la potenzialità della manifattura , normanna era ancora troppo bassa per poter arruolare grossi eserciti ope - rai. Sulla base di questi soli dati sembra davvero troppo audace voler de - durre che i ceti merca11tili non hanno interesse allo sviluppo della produzione, che il capitale commerciale tende a frenare la liberazione delle forze produttive, ch'esso preferisce la politica del mercato ristretto a quella del ·basso prezzo e del mercato più largo, ecc. Bisognerebbe condividere il tranquillo dommatismo del Procacci per affermare con tanta sicurezza che l'ulteriore sviluppo della produzione « avviene ugualmente, ma senza il... concorso>>del capitale mercantile (7 ), in cui peraltro si addita qualche pagina dopo una delle fonti del futuro capitale industriale ( 8 ). In realtà, tra le preoccupazioni commerciali della città di Rouen nel 1517 e il pro- ( 6 ) PRocAcc1, Classi sociali, cit. pp. 134-35. ( 7 ) Ivi, p. 135. ( 8 ) Ivi, p. 139. [9] Bibloteca Gino Bianco ..

gramma pre-mercantilistico delle più tarde plaintes générales, il rapporto è assai più di diretto svolgimento che di opposizione. Fuori di tutto ciò, le << forze produttive» invocate del Procacci come vere creatrici dell'industria (0 ) sono scarsamente identificabili ( 10 ). Preferiamo perciò sottolineare le riserve espresse dallo stesso autore con la dichiarazione che, allo stato della documentazione, una << soluzione definitiva » del problema del rapporto del << peuple moyen » con il vecchio ordine feudale appare « francamente improbabile» (11 ). Alle agitazioni e alla penetrazione protestante nella Guyenne prima dello scoppio delle guerre di· religione è dedicato, come si diceva, il secondo dei saggi. Anche qui, l'indagine si fa apprezzare per la chiarezza e la minuzia dei rilievi. Ben documentata - e d'altronde il Procacci aveva già avuto dei predecessori - la larga partecipazione pqpolare alla nuova religione, la crisi della monarchia assoluta che deriva dalla dislocazione del vecchio ordine di cose ecc. Qualche riserva suscita invece l'interpretazione dei rapporti fra masse popolari e borghesia nella rivolta, e la funzione attribuita ai nuclei dei più zelanti propagatori della religione riformata. Vedere irì costoro solo gli << intellettuali >>del moto popolare, nel senso specifico della terminologia gramsciana, vuol dire sottovalutare ia funzione storicamente preminente che spettò a quei religiosi, insegnanti, librai, medici, avvocati, studenti, che così spesso troviamo nella lista dei dirigenti e dei martiri, e ai quali spetta l'iniziativa del moto, che il Procacci attribuisce invece alle grandi masse, che avre1 b·bero poi trascinato con sé gli altri ceti. Che non è poi se non un aspetto della più grave deficienza derivante dalla assoluta oscurità in cui è lasciato l'elemento religioso della Riforma, a tutto profitto dei motivi «sociali». Si perde così l'aspetto centrale di quel grande fatto storico; e a volte la spiegazione <<sociale>>finisce per non persuadere neppure come esterno meccanismo causale, non potendosi attribuire, come fa il Procacci, alla sola insofferenza degli aggravi ( 3 ) I vi, pp. 135, 139. ( 10 ) A questo proposito il PRocAcc1, Lotte di" classe, cit., p. 417 sgg., aveva accennato all'interessante problema dei progressi dell'outillage e della tecnica agraria: ma lo spunto non è ripreso in Classi sociali, cit., e comunque si tratta di un processo che andrebbe studiato già nel basso medioevo. ( 11 ) PRocAccr, Classi sociali, cit., pp. 116-17. [10] Bibloteca Gino Bianco I

fiscali e alla sollecitudine per le autonomie municipali ( 12 ) ( che non sembra corressero allora pericoli più gravi dell'autonomia dei grandi feudali) l'adesione di tanta parte della borghesia alla Riforma e la sua rivolta contro la monarchia assoluta. II In realtà, la storiografia marxista dell'ultimo decennio è stata essenzialmente, come si è detto, storia del Risorgimento e dello Stato unitario. Ed è, questa storiografia, quasi tutta accentrata - con qualche solitaria eccezione che più in là segnaleremo - intorno alla nota tesi del Risorgimento come rivoluzione agraria mancata, che va generalmente sotto , il nome del Gramsci (13 ). È da rilevare peraltro un che di arbitrario e di parzialmente inesatto in questa attribuzione, non tanto per porre una astrat-- ta questione di paternità - chè anzi in tal senso la denominazione può ben essere adoperata, poichè al Gramsci certamente si deve la più profonda e coerente formulazione della tesi -, ma per additare un elemento importante di essa che proprio la sua attribuzione al Gramsci tende a relegare in secondo piano. In effetti, la prima esplicita formulazione della critica alla borghesia risorgimentale per non aver saputo ampliare il moto nazionale in una più integrale rivoluzione democratico-borghese, che mobilitasse anche le masse contadine per il rovesciamento e l'eliminazione dei residui feudali nelle campagne, è apparsa nell'immediato dopoguerra nel ricordato volume del Sereni sul Capitalis1no nelle campagne ( 14 ), composto per di più, come parte di un più ampio lavoro, negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale. Un libro, quello del Sereni, che non ha forse trovato molto favore di giudizi fra gli storici, per certa frettolosità nell'informazione, la mancanza di ricerche originali, l'eccesso della fraseologia marxista, l'errore di alcune tesi come quella sulla politica finanziaria della Destra (a proposito della quale cfr. la critica dello Chabod) (15 ), certo innegabile schematismo, che ( 12 ) Ivi, p. 212. ( 13 ) A. GRAMSCI, Il Risorgimento, 3a ed., Torino, 1950, pp. 69-104, e passim. ( 14 ) E. SERENI, Il capi.talismo nelle campagne (1860-1900), Torino, 1947. ( 15 ) F. CHABon, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, voi. I, Le premesse, Bari, 1951, pp. 498-99. [11] Bibloteca Gino Bianco

conduce a contrapposizioni assai rozze e semplicistiche, come quèile di una proprietà nobiliare tipicamente feudale alla borghese e capitalistica: quasi che nobili come i Cavour gli Jacini i Ricasoli non rappresentassero, in diversa misura, le punte più avanzate del capitalismo in Italia. Ma nonostante tutto questo il libro del Sereni rimane l'opera di uno studioso sicuramente padrone della fondamentale tematica marxista del processo di sviluppo capitalistico, che alla luce di questa tematica ha compiuto u-n serio sforzo di reinterpretazione dello sviluppo della società italiana nei primi quarant'anni dopo l)Unità: e in tal senso è da deplorare che il Sereni abbia avuto, come vedremo, assai scarsi continuatori. Appunto dalla teoria marxista dello sviluppo capitalistico egli ha tratto il concetto della rivoluzione agraria come fenomeno storicamente collegato con -l'integrale realizzazione della rivoluzione borghese (16 ); e nella sua assenza dal Risorgimento ha visto appunto l'origine dei limiti e delle contraddizioni più gravi della vita sociale e politica dello Stato unitario. Alla stessa tesi Gramsci ha dato, per suo conto, u110sviluppo più largo, cercando di superare il dottrinarismo economico-sociale della comune ma- · trice marxista in una compiuta visione dei rapporti storico-politici tra le due forze principali del Risorgimento, nella quale confluiscono anche gli echi dei dibattiti che i precedenti tentativi revisionistici avevano suscitato nella cultura italiana. Egli scorge nella supremazia dei moderati il risultato della incapacità del partito d'azione a svolgere la propria politica in modo coerentemente giaco1 bino, includendovi anche le finalità e i problemi sociali dei contadini; e inquadra questa concezione in una visione della storia d'Italia dominata dalla incapacità delle città italiane del Medioevo a superare il conflitto con le campagne delineatosi dopo la prima fase dell'alleanza antifeudale. Questa frattura rimane dunque alla radice di tutta la storia del Paese, e ad essa si riporta la secolare oppressione delle campagne, il declino della capacità creativa delle città, il fallimento di ogni politica unitaria col connesso cosmopolitismo della cultura e della civiltà italiana. Da ciò l'istanza politica profonda dell'alleanza degli operai e dei contadini come sbocco storico di questa esigenza quasi millenaria della ( 16 ) Vedi i concetti fondamentali di questa teoria in Politische Okonomie. Lehrbuch (a cura dell'Istituto di Economia dell'Accademia delle Scienze dell'URSS), Berlin, 1955, pp. 69-70. [17] Bibloteca Gino Bianco

storia del paese, come sforzo risolutivo dei suoi contrasti e dei suoi problemi fondamentali. Non può dirsi certamente che di questa tesi si sia data una appr ofondita discussione. Quasi tutti gli storici marxisti del Risorgimento l'hanno adottata come criterio di orientamento di una serie di indagini p articolari; ma non ve n'è stato alcuno, ch'io sappia, che si sia posto in modo adeguato i gravi problemi, storici e metodologici, ch'essa comporta. E ciò, neppure di fronte alle gravi obiezioni che immediatamente furono soll evate. La più autorevole storiografia, dal Croce ( 17 ) all'Antoni ( 18 ) allo Chabod ( 19 ), ha infatti individuato, neìla posizione del Gramsci, l'errore comu ne a tutte le varie forme di revisionismo risorgimentale che si sono succe dute dall'Oriani al Missiroli al Gobetti; e che sono tutte caratterizzate d al ricorso a un astratto ideale morale e politico, al quale arbitrariamente s i presume che la storia realmente accaduta avrebbe dovuto adeguarsi, e ins ieme, dal fondamentale anacronismo di questo criterio di giudizio, che n on nasce dalla concreta storia del tempo, ma dai più tardi problemi che allo storico si pongono. E su questo anacronismo, a proposito del Gramsci, h a insistito con particolare energia lo Chabod, sottolineando il legame tra la sua critica al Risorgimento e il problema, postosi ai socialisti e comunis ti italiani nel primo dopoguerra, di agganciare al movimento del proletari ato cittadino le masse contadine largamente controllate dalle leghe « bianc he >>(20 ). D'altra parte, è da tener presente che la tesi del Gramsci è anzi tutto formulata come critica del partito d'azione sul piano della coerenz a storicopolitica, mirando a sottolineare l'incapacità a svolgere la propr ia battaglia in una rivoluzione fondata sull'alleanza giacobina di borghe sia avanzata e contadini, che sola gli avreb·be consentito di sottrarsi all' <<e gemonia>) dei moderati e di realizzare una << conseguente » rivoluzione democratica. Ma il presupposto di tutta la tesi è l'esistenza di una struttura c ontadina mobilitabile ai fini della rivoluzione nazionale e democratica, l 'esistenza cioè di una «oggettiva>> possibilità rivoluzionaria, che il partito d'azione, a differenza dei giacobini francesi, non seppe tradurre in atto, ma che ( 17 ) B. CROCE, in Quaderni della Critica, XV, 1949, p. 112. ( 18 ) C. ANTONI, nel Mondo, 9 aprile 1949. ( 19 ) F. CHABOD, Croce storico, in Rivista storica i·taliana, LXIV, 1952, p. 521. ( 20 ) Ivi, loc. cit. · [13] Bibloteca Gino Bianco

. non per questo era meno reale e meno concreta. Non è necessario sOttolineare tutti i dub,bi e le riserve che questo concetto di una struttura « oggettiva», fuori della coscienza degli uomini del tempo, può suscitare e suscita nello studioso non marxista: ma è anche vero che se ci si vuole rendere conto della indu·bbia importanza che la tesi del Gramsci ha assunto nella polemica sul Risorgimento occorre andare oltre la mera discussione di principio, e cercare di intendere fino in fondo il pensiero dell'autore nell'ambito della sua particolare metodologia: salvo poi a tentare di tradurre i risultati di questa analisi di una interpretazione valida anche per correnti culturali di diversa ispirazione. Al di là dunque di ogni discussione metodologica generale vanno poste, a proposito della tesi del Gramsci, due questioni fondamentali, relative da una parte alla reale possibilità di una rivoluzione agraria, all' effettiva esistenza cioè di una alternativa al Risorgimento quale· si è concretamente realizzato; e dall'altra al carattere più o meno progressivo, rispetto alla soluzione storicamente raggiunta, di questa presunta alternativa. Che è questione non meno importante della prima: perchè appunto sul non aver saputo spingere fino in fondo tutte le possibilità di progresso <<oggettivamente >>contenute nella situazione italiana si accentra la critica del Gramsci alla classe dirigente risorgimentale; e soprattutto perchè da una giusta valutazione del significato della mancata rivoluzione agraria dipende una esatta impostazione dei reali proble1ni dello sviluppo capitalistico e moderno in Italia nel secolo XIX. Ora, nonostante gli elenchi sempre più folti di insurrezioni e moti contadini che la storiografia, e non solo quella marxista, d'altronde, ci viene apprestando; nonostante la indubbia esistenza di condizioni di granJe miseria o di disagio in gran parte delle campagne italiane e la persistenza di larghi residui feudali, specie nel Mezzogiorno; nono)tante il fatto massiccio della presenza di una popolazione contadina di oltre quindici milioni nel 1860, di cui la maggior parte contadini poveri o braccianti o <<salariati>>,e i propositi talora affacciatisi di mobilitare questa massa contro i vecchi regimi assolutistici: sembra innegabile che la prest1nta alternativa rimane fuori della realtà storica e politica. E ciò, noì tanto per il tenace sanfedismo delle campagne italiane, magari superabile con la [14] Bibloteca Gino Bianco

impostazione del problema della terra; quanto per le condizioni storiche di fondo in cui era destinato a svolgersi il Risorgimento. Sembra certo anzitutto che una rivoluzione agraria e giacobina in Italia avrebbe provocato uno schieramento antitalia-no di tutte le maggiori potenze europee, interessate alla conservazione sociale, e legate a una visione della civiltà e dei rapporti internazionali profondamente ostile a quel genere di sovvertimenti. Il problema dei rapporti internazionali è stato energicamente sottolineato a questo proposito dallo Chabod ( 21 ); e già Gramsci si era chiesto (e aveva risposto negativamente) se in Italia fosse possibile una rivoluzione di tipo giacobino nella mancanza di << autonomia internazionale » del nostro paese, quando invece la Francia era da secoli potenza egemonica in Europa (22 ), e aveva avvertito l'importanza del mutato clima europeo dopo il 1815. Ma a questo proposito il suo pensiero appare particolarmente aggrovigliato, quasi eh' egli riluttasse a trarre tutte le conseguenze della difficoltà che gli si presentava: « il limite trovato dai giacobini nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Le Chapelier e quella sul maximum, si presentava nel '48 come uno 'spettro' già minaccioso, sapientemente utilizzato dall'Austria, dai vecchi governi ed anche dal Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece potè abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l'azione sui contadini era certamente sempre possibile » (23 ). Lasciamo da parte il carattere << soggettivo» od << oggettivo>> delle ragioni che nel secolo XIX impedivano, in tutta Europa, l'alleanza della borghesia con le grandi masse popolari, nel senso inteso da Gramsci (per questo occorrerebbe riproporsi tutto il problema dei rapporti tra liberalismo borghese e movimento proletario in quel periodo). È un fatto che per l'Italia l'avversione di tutte le maggiori potenze a un sovvertimento agrario si presentava con un carattere ben « oggettivo >>; ed è poi singolare che si affermi la possibilità dell' << azione sui contadini>> dopo aver negato che si potesse estendere l'egemonia borghese sui vasti strati popolari, quando è chiaro che le due cose sono in ( 21 ) CHABOD, loc. cit. ( 22 ) GRAMSCI, cit., p. 150. ( 23 ) I vi, pp. 87-88. Bibloteca Gino Bianco [15]

realtà una sola: non potendosi spostare la questione agli strati pOpolari cittadini, che del resto il partito d'azione riuscì in larga misura a dirigere e a controllare. Si pensi poi alla estrema difficoltà di trasformare l'Italia meridionale (che nel rapporto città-campagna sta al centro della tesi gramsciana) in un paese di democrazia rurale, di piccola proprietà, dopo tutto quel che sappiamo dell'esito delle censuazioni dello scorso secolo (e si noti che per la tenuità dei canoni quelle censuazioni eliminavano nelle zone interessate l'ostacolo della rendita fondiaria a carico del coltivatore), e dopo che la esperienza degli Enti di riforma .agraria ha mostrato anche ai più refrattari quale somma di capitali e quali risorse tecnico-agrarie - di decisiva importar1za nell'adattamento e sistemazione e accrescimento della produttività dei terreni, e interamente inesistenti nello scorso secolo - siano necessari p-er la soluzione di quel problema su una scala assai ridotta. Ed è chiaro che qui si discute appunto della creazione di una democrazia rurale; perchè se si volesse intendere la tesi del Gramsci nel senso di un più valido sostegno che il partito d'azione avrebbe dovuto dare ai contadini nella spartizione di terre demaniali o nella riforma dei vecchi patti scannatori, non solo si traviser~b1 be l'esplicito pensiero del Gramsci (che si impernia sul raffronto con la politica agraria dei giacobini francesi), ma si toglierebbe ogni interesse alla discussione, perchè è evidente che una siffatta politica I o si sarebbe sviluppata in una generale sollevazione ·per la conquista della terra o avrebbe dovuto soccombere, specie nelle zone più arretrate, alla sopravvivenza delle vecchie strutture feudali, lasciando al più qualche trac-· eia 1 priva di interesse storico. Un discorso più complesso richiede il preteso carattere progressivo del1' alternativa della rivoluzione agraria, l'affermazione cioè che la struttura sociale ed economica realizzatasi in Italia attraverso il Risorgimento rappresenti una fase storicamente più arretrata di quella raggiungibile attraverso la rivoluzione agraria. È proprio questo concetto che anima gran parte della polemica marxista ·contro il Risorgimento; ed è appunto in esso che più chiaramente si rivela la genesi « dottrinaria >>, oltre che pratico-politica, della tesi del Gramsci. Già si è aècennato eh' essa ha il suo " [16] Bibloteca Gino Bianco

nucleo originario nella visione marxista dello sviluppo capitalistic o, che il Gramsci applica all'Italia sopratutto rifacendosi al modello dell a rivoluzione borghese di Francia; benchè non debba esser sottovalutata, a questo proposito, l'esperienza che il Gramsci fece, prima attraverso gli scritti di Lenin, e poi direttamente nel suo soggiorno in Russia, dell'impostazione del problema agrario nei paesi a struttura arretrata dell'Europa orientale, dove appunto la questione nazionale e_quella della rivoluzione an tifeudale erano apparse strettamente congiunte agli occhi del pensiero democra tico (24 ). Senonchè, il problema dello sviluppo capitalistico in Italia non pu ò essere identifjcato nè con quello della rivoluzione agraria nei paesi arretrati del1'oriente europeo, caratterizzati da una estrema debolezza dello svilup po cittadino e ·borghese, nè con quello dello sviluppo capitalistico in Franc ia, che si distingue dall'analogo processo italiano per uno svolgimento dell e città e - del capitalismo urbano incomparabilmente più rapido e più vigor oso. Dai tempi di Colbert alla vigilia della Rivoluzione la borghesia manif atturiera e mercantile francese aveva realizzato progressi giganteschi. Fabbr icanti di drappi, di seterie, di tele stampate, cotonieri, industriali metallurg ici, mobilieri, che controllano numerosissimi lavoranti a domicilio e sempre più spesso vanno anche concentrando capitali forza motrice e mano d' opera in I ( 24 ) Devo a Franco Venturi l'osservazione che di ciò si ha un riflesso assai caratteristico nel termine << nazionale-popolare », che ognun sa quale importanza abbia nel linguaggio del Gramsci, e che non è se non una derivazione dal russo norodnost', - proveniente da narod, 'popolo' e 'nazione' insieme, ed equivalente al tedesco Volk - che era stato ricalcato sul tedesco Volkstum e, analogamente a questo, aveva avuto ' un valore reazionario e polefI?.icocontro la rivoluzione francese e i movimenti liberali. Fu attraverso Herzen e gli slavofili che il concetto venne trado tto in termini democratici, e la parola si riempì perciò di un nuovo significato, che ri mase poi nel pensiero rivoluzionario russo: cfr. F. VENTURI, Il populismo russo, Torino, 1952, vol. I, pp. 35, 45 e passim. Suggestioni stimolanti sulla parziale affinità dell'impostazione g ramsciana con la problematica rivoluzionaria dei paesi contadini del l'Europa orientale, si possono trarre da D. M1TRANY, Il marxismo e i contadini, tr. it., Firenze, 1954; e spec. da H. SETON-WATSON, The lntellectua/,s and Revoluti·on: Soci.al Forces in Eastern Europe since 1848, in Essays presented to Sir Lewis Namier,. London, 1956, pp. 394-430. In particolare, cfr. S. K1ENIEw1cz, La question agraire et la lutte pour la libération nationale en Pologne et en Itali·e à l'époque du << Printemps des Peu.. ples », in X Congresso Internazionale di Scienze Storiche, vol. VII, Ri·assunti delle comuni·cazioni, Firenze 1955, p. 74 sgg. [17] Bibloteca Gino Bianco I .

~ .. stabilimenti che impiegano centinaia di operai; società anonime come quella del Creusot, con un capitale di dieci milioni di lire; industriali minerari; sopratutto armatori, di Nantes, Bordeaux, Le· Havre, Marsiglia, Rouen, arricchitisi col commercio coloniale e con la tratta dei negri, finanzieri e speculatori, creditori dello stato, che, verso il 1789, hanno in mano oltre 200 milioni di titoli del debito pubblico (25 ); tutto ciò è già una realtà prima dell'89, è la spina dorsale già costituita del capitalismo francese. Ben diversa la situazione italiana fin oltre la metà del secolo XIX. Qui l'industria aveva ancora un peso quasi trascurabile nel quadro dell'attività economica del paese, e anche il commercio, nonostante avesse certo un rilievo assai maggiore, era tuttavia subordinato all'agricoltura, esaurendo quasi interamente il suo compito nel mettere in movimento i prodotti delle culture locali. Persino nella regione più avanzata, la Lombardia, lo Jacini calcolava che nell'agricoltura si investisse una somma sei volte maggiore di quella investita nel commercio e nell'industria messi insieme; e la stessa Milano era ancora una città nello stadio commerciale del suo sviluppo (26 ). Indubbiamente esistevano anche nelle città italiane, specie del Nord ma non solo del Nord, grosse fortt1ne mobiliari, nelle mani di banchieri e di mercanti imprenditori, che controllavano una parte più o meno larga, nelle varie zone, del1' attività industriale -esercitata a domicilio, ma il peso di quelle fortune nel complesso dell'economia nazionale era in Italia assai meno rilevante che non in Francia. Accadeva perciò che da noi, ancora verso il 1860, i soli fenomeni capitalistici su larga scala e capaci di dar luogo a forme moderne di organizzazione produttiva di dimensioni rilevanti si riscontravano nella agricoltura, con lo sviluppo nella valle Padana (27 ), fra Sette e Ottocento, di grandi gestioni agricole caratterizzate da largo impiego di capitali e di mano d'opera salariata, miglioramento dei metodi di cultura, aumento notevole dei mezzi tecnici e della produzione. Anche in gran parte della re- ( 25 ) PH. SAGNAc, La for1nation de la société française moderne, Paris, 1946, vol. II, p. 232. ~ ( 26 ) K. R. GREENFIELD, Economia e liberal,ismo nel Risorgimento, tr. it. Bari, 1940, pp. 90, 156. ( 27 ) L'ampiezza del fenomeno, già largamente noto per la Lombardia e il Piemonte, è stata di recente riaffermata anche per il Veneto dalla nuova, eccellente ricerca di M. BERENGo, La società veneta al.la fine del '700, Firenze, 1956, p. 93 sgg. [18] ,Bibloteca Gino Bianco

stante Italia centro settentrionale, nelle zone dominate invece dagli antichi contratti di fitto e di mezzadria - in se stessi di tipo precapitalistico - si son già venuti inserendo elementi capitalistici, con la partecipazione sempre maggiore del proprietario al capitale dell'impresa, e l'accentramento nelle fattorie padronali di mezzi tecnici rilevanti, cantine, macchinario ecc., che funzionano al servizio dei vari poderi mezzadrili, ma che appunto diminuiscono l'autonomia della piccola gestione agricola, organicamente insufficiente davanti alle esigenze della 11uova tecnica produttiva che ormai batte alle porte: prodromi tutti delle prof onde trasformazioni che il contratto di mezzadria subirà nella seconda metà del secolo con la crescente diffusione dei rapporti capitalistici nelle campagne. Anche la più importante delle industrie collegate all'agricoltura, la trattura della seta, base di una esportazione in cui si scorgeva la fonte di un'inesausta corrente di oro per l'economia delle zone padane, si svolgeva largamente in campagna, presso le fonti della materia prima: ma essa aveva già abbandonato le case dei contadini per concentrarsi nelle numerose .filande impiantate ad iniziativa dei proprietari terrieri, che raggruppavano già parecchie diecine di operaie. Son questi degli accenni, che richiamano fatti ben noti, ma che è opportuno tenere presenti più che di solito non si faccia nella discussione di tali que- • • st1on1. È infatti su tale sfondo di debole sviluppo del capitalismo cittadino e di incipiente capitalismo agrario che va studiato il significato della mancata rivolt1zione contadina auspicata da parte marxista. In un paese come l'Italia del secolo XIX, dove già la borghesia aveva posto le mani su buona parte della proprietà ecclesiastica nell'età napoleonica (è caratteristico ad es. che la famosa tenuta del Cavour a Leri provenisse dai beni dell'abbazia di Lucedio, confiscati e poi assegnati da Napoleone al principe Borghese, dal quale la aveva acquistata il marchese Michele di Cavour), e dove l'introduzione del codice Napoleone aveva già cancellato ogni differenza giuridica tra proprietà feudale e proprietà borghese; una rivoluzione contadina mirante alla conquista della terra avrebbe inevitabilmente colpito - dovunque avesse potuto consolidarsi e dunque, si può presumere, specialmente nel · Nord e· nel centro della penisola - anche le forme di più avanzata economia agraria, liquidando gli elementi capitalistici dell'agricoltura italiana per sostituirvi un regime di piccola proprietà indipendente, e imprimendo all'Italia agricola una .fisionomia, appunto, di democrazia rurale. A tutto [19] Bibloteca Gino Bianco

ciò si sarebbe certo accompagnata la liquidazione dei residui feudali; fatto> questo, grandemente positivo nel quadro dei rapporti agrari italiani. Ma nel processo generale dello sviluppo capitalistico in Italia questa rivoluzione avrebbe avuto un valore assai diverso: e basta guardare alle conseguenze della rivoluzione nelle campag-ne francesi p-er rendersene conto. Se infatti essa migliorò le condizioni di larghi strati di contadini (benchè gli studi più recenti abbiano dimostrato che i più avvantaggiati furono i contadini ricchi, e che la proporzione dei braccianti senza terra rimane inalterata o diminuì di poco (28 ): ciò che costringe a ridurre di molto l'efficacia in tal senso di una rivoluzione agraria nel nostro paese, che nel 1861 aveva una popolazione agricola quasi uguale ·a qµella della Francia nell'ultimo decen-nio del '700, su una superficie agricola inferiore della metà e assai più povera), è un fatto incontestabile ch'essa bloccò in pari tempo lo sviluppo del capitalismo nelle campagne francesi. È alla rivoluzione contadina, scrive il maggiore storico di questi problemi ( 29 ), che si deve se in Francia << notre évolution agraire ne peut pas s'enorgueillir des memes progrès économiques que tels autres pays >>; che è la contropartita dell'aver salvato il contadino francese dalle enclosures, e dell'avere garantito una evoluzione che << a causé moins de souffrances et a été plus humaine ». In effetti, la conquista della terra da parte dei contadini nella Rivoluzione non segnò affatto un progresso tecnico e produttivo dell'agricoltura francese. Durante tutta la prima metà del secolo XIX essa versa in uno stato di stagnazione profonda, contrassegnato da scarsissimi progressi (30 ); e solo nella seconda metà del secdlo l'impet11ososviluppo del capitalismo urbano si apre la via anche nelle campagne, assoggettandosi largamente i rapporti agrari, senza ,peraltro riuscire a spingere l'agricoltura sulla via di una sviluppata produzione capitalistica ( 31 ). Dop•o una fase di progres~o più rapido nel regime libero scambista ( 28 ) G. LEFEBVRE, Études sur la Révolution Française, Paris, 1954, pp. 241-42. ( 29 ) Ivi, p. 268; e cfr. anche le conferme fornite nell'eccellente saggio di A. Ser BOUL, Classi e lotte delle classi durante la Rivoluzione francese, in Movimento Operaio, N. S., V, 1953, pp. 193-94, 197-99. ( 30 ) H S ' H. . ' · • EE, zstotre economique de la France, vol. II, Les temps modernes , (1789-1914), Paris, 1951, pp. 11 sgg., 120 sgg. ( 31 ) Ivi, p. 311 sgg.; ma cfr. p. 327: << Cependant, on ne peut dire que l' agriculture représente vraiment, sauf dans quelques régions, une entreprise capitaliste, qu' elle tende fortement à s'industrialiser. Le capitalisme ne peut exercer son action que sur [20] Bibloteca Gino Bianco

inaugurato sotto l'Empire libéra/,, l'agricoltura francese conobbe una nuova crisi di stagnazione con l'introduzione del protezionismo dopo il 1880. Si verificarono allora fenomeni di vero e proprio regresso tecnico, di ritorno a << une sorte de pré-agriculture, anachroniquement prolongée à l'époque moderne» (32 ). E ancora ai giorni nostri la Francia ha il problema di una agricoltura in cui nel 1946 le aziende con meno di 3 salariati erano il 96,6% e occupavano 1'84,2% delle superfici; in cui nel 1950 il 76% delle aziende dichiararono un reddito lordo inferiore a 750.000franchi, e il 40% un reddito lordo inferiore a 300.000 franchi (33 ); in cui sono numerose le famiglie contadine proprietarie di beni insufficienti, e avviate perciò al declino demografico, a una remunerazione del lavoro inferiore al saggio medio del salario bracciantile, al ma1tusianesimo economico, con i vari divieti e contingentamenti della produzione; in cui la penetrazione dell'economia di mercato nelle campagne ha ridotto l'autoconsumo a una quota che oscilla dal 10% per i produttori indipendenti più agiati al 30-50% ·per i meno fortunati, ma il capitalismo si presenta tuttavia I più come taglieggiamento esercitato dai sistemi di distribuzione e di rifornimento dei mercati cittadini che non come forza promotrice del progresso tecnico e della produzione agricola; un'agricoltura, infine, che con il suo risparmio, mobilitato dalle banche, ha rifornito di capitali l'Europa e il mondo, ma non è riuscita ad attrezzare se stessa in modo conveniente, e si trova oggi a fronteggiare formidabili problemi di struttura ( 34 ). E tutto les opérations commerciales (achats de machines, d'engrais, vente de produits), de plus en plus importantes il est vrai, depuis que les marchés s'étendent et deviennent lointains. L'intermédiaire capitaliste s'insinue forcément entre le producteur et le consommateur et réalise des profits aux dépens de l'un et de l'autre ». Cfr. anche nota 34. ( 32 ) R. DuMoNT, Une politique agricole: investissements, expans1:on, distribution .. in Temps modernes, X, 1955, nn. 112-13, p. 1989. ( 33 ) P. CouTIN, Perspectives d'avenir, in Esprit, XXIII, 1955, p. 933. ( 34 ) Cfr. sui problemi attuali dell'agricoltura francese e i loro riflessi politicosociali: L. CHEVALIER, Les paysans. Étude d'Histoire et d'Economi·e rurales, Paris, 1947; Villes et campagnes. Civili·sation urbai·ne et ci·vilisati·on rurale en France (a cura del Centre d'Études Sociologiques), Recueil publié sous la direction et avec une introduction de Georges Friedmann, Paris, 1953; Espri·t, XXIII, 1955, n. 6 (numero speciale dedicato a Les paysans); R. DuMoNT, Une politz·que agricole, cit. - Dati e raffronti tecnici di grande interesse, fra gli altri, in R. DuMoNT, Les leçons de l'agricul- [ìl] Bibloteca Gino Bianco

ciò non ha mancato di ripercuotersi sullo stesso capitalismo urba-flo, e ha avuto una parte fondam~ntale nel mettere la Francia in condizioni di netto svantaggio rispetto ai più avanzati paesi industriali, come più oltre avremo occasione di ricordare. Senonchè, l'arresto del capitalismo agrario francese ven,ne in buona parte fronteggiato e compensato dalla poderosa ascesa del capitalismo finanziario, industriale e commerciale, che, come si è ricordato, aveva già raggiunto un alto grado di sviluppo nei secoli precedenti. Che è appunto la condizione fondamentale che 1nancava in Italia, e la cui assenza o debolezza caratterizza tutto lo sviluppo del capitalismo nostrano di fronte a quello francese. Una volta liquidato dalla rivoluzione ' contadina il più progredito capitalismo agrario, e nella generale debolezza di quello industriale e· mobiliare, il paese avrebbe subito un colpo d'arresto nelrra sua evoluzione a paese moderno, e non solo sul piano della vita economica, ma in genere dei rapp,orti civili e sociali. Certo, allo stato degli studi è assai difficile dare una risposta sufficientemente precisa ai quesiti che si pongono intorno alle fonti dell'accumulazione capitalistica in Italia. Ovviamente, esse sono meno varie in Italia che in altri paesi, dov-endosi escludere il commercio e lo sfruttamento coloniale, e avendo scarso significato, per l'Italia, la tesi avanzata per l'Inghilterra, sul capitale industriale che << genera se stesso». Indubbiamente, una fonte imp-ortante dell'accumulazione capitalistica fu la politica co11nessaalla fondazione e allo sviluppo dello Stato unitario, che fin da1le origini convogliò grosse quantità di risparmio forzato verso l'esecuzione di grandi opere pubbliche (p. es. costruzioni ferroviarie), favorì le speculazioni finanziarie collegate con la ture américaine, Paris, 1949; M. CÉPÈDE, M. LANGELLÉ, Econom1:e alimentaire du globe, Paris, 1953. D. FAucHER, Le paysan et la machine, Paris, 1954, p. 210 sgg., osserva che, a causa degli << obstacles issus du passé », le democrazie agrarie dell'Europa Occidentale (cioè, in primo luogo, la Francia) fanno una assai meschina figura di fronte all'Inghilterra, agli Stati Uniti, all'Unione Sovietica: << le régin1e agraire joue ... contre la mécanisation généralisée du travail agricole et è plus forte raison contre sa motorisation, partout où la petite ou la moyenne propriété l'em·portent sur la grande», etc. E in generale, sulla progressiva sclerosi dell'econo1nia e della società nella Francia dei minuscoli esercizi e della piccola proprietà (la Francia della << piccola città» di cui parlava Mare Bloch) cfr. l'efficace quadro tracciato da H. LirTHY, La Francia contro se stessa, tr. it., Bologna, 1956. [22] Bibloteca Gino Bianco

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