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Nicola Chiaromonte

Stato e minoranze rivoluzionarie


Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Ci è giunto, con questo titolo, un comunicato che porta l’indicazione «Faro - Agenzia stampa», con sede a Vigevano, e della quale è direttore responsabile Gian Franco Invernizzi. Non conoscevamo l’agenzia Faro, né conosciamo il suo direttore, ignoranza di cui ci scusiamo. L’articolo che porta il suddetto titolo, ed è da lui siglato, ci è parso comunque interessante, in quanto, nella non poca confusione di motivi che accompagna la sommossa degli studenti, c’è qualcuno che ha voluto mettere i punti su qualche i e cercare di distinguere ciò che va distinto, anche se poi le distinzioni si prestano secondo noi a critiche sostanziali. Lo pubblichiamo perciò qui di seguito per intero, facendolo seguire da alcune osservazioni.

Le recenti manifestazioni studentesche che si sono sviluppate in Europa e in America sui temi della "contestazione globale” ad opera di minoranze insofferenti alla organizzazione della società quale si è venuta configurando in Occidente, rappresentano un fenomeno politico di tipo nuovo nel sistema occidentale. Nonostante le apparenze, è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la "rivoluzione culturale” in Cina. Anche nei Paesi occidentali il moto autonomo e spontaneo dei gruppi studenteschi si è manifestato contro la burocrazia politica. Ma, mentre la "rivoluzione culturale” cinese non contesta il sistema vigente, limitandosi a prenderne di mira alcuni aspetti, alcune frange riformiste e autoritarie, in Occidente il movimento studentesco mette in discussione l’organizzazione della società, il "sistema”. Il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune "tare” autoritarie, in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione. L’uno infine è un fatto di massa, l’altro un fatto di élite, di avanguardia. È altrettanto sbagliato vedere analogie fra le manifestazioni studentesche in Occidente e quelle dei Paesi dell’Est europeo, Polonia e Cecoslovacchia in particolare. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi occidentali contesta un tipo di sistema che ha raggiunto una avanzata fase "consumista” nel quadro della società industrializzata. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo, contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà, tout court. Il movimento politico studentesco in Occidente si presenta in realtà più "avanzato” nei suoi contenuti di tutta una fase storica rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo. In questa differenza di "qualità” e di "quantità” nei fenomeni politici giovanili delle aree comuniste, moscovita e cinese e dell’area occidentale, c’è spazio per un discorso franco e obbiettivo. La violenza delle manifestazioni di alcuni gruppi politici in Occidente sembra direttamente proporzionale al grado di "integrazione” delle varie classi sociali nel sistema. Più il sistema "integra”, più sembra radicalizzarsi nei Paesi industrializzati dell’Occidente l’azione di alcune minoranze, fino all’uso della violenza, da parte di alcuni gruppi più ristretti, come strumento di protesta e di lotta politica. Non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale. Si perviene quindi, ed è bene parlarne, ad uno dei temi più delicati e cruciali, quello cioè del rapporto fra lo Stato e l’azione di alcuni gruppi quando questa sfocia nella violenza. Nelle moderne società industrializzate, l’apparato produttivo raggiunge un alto grado di efficienza e sempre più complessa diviene l’organizzazione civile. L’azione irresponsabile di gruppi violenti, che potrebbe arrecare all’una e all’altro danni gravi, non può essere tollerata. Vi è pertanto un problema di prevenzione, di "democratizzazione” e un problema di repressione. Vi è la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei ed efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione. Occorre prevenire e reprimere le azioni di violenza, lasciando la più ampia libertà di espressione a tutti. Purtroppo, a considerare da come ci si è mossi nei Paesi europei occidentali nei confronti delle manifestazioni studentesche, v’è da temere che da parte delle vecchie classi politiche che si trovano a gestire (male) il "sistema”, si assumano atteggiamenti radicalmente sbagliati. Reprimendo cioè libere e lecite manifestazioni di cittadini e mostrandosi deboli, incerti, persino paurosi e codardi nei confronti delle azioni di violenza di alcuni gruppi politici minoritari. In America ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza.

È bene che, per cominciare, il direttore dell’agenzia Faro abbia tenuto a dire chiaramente che «è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la "rivoluzione culturale” in Cina». Quando però egli aggiunge che «il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune "tare” autoritarie», mentre «in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione», è difficile non rilevare che, per quanto se ne sa, e quali che siano peraltro stati i suoi effetti e meriti eventuali, la «rivoluzione culturale» cinese ha avuto in ogni caso il carattere di un movimento scatenato dall’alto, sostenuto dal meccanismo statale non poco autoritario che regge attualmente la Cina e in particolare dal formidabile centro di potere costituito dal dittatore Mao Tse Tung e dai suoi fedeli.
Tale movimento è d’altra parte tornato nell’alveo prestabilito non appena detto centro di potere -e più particolarmente il potere militare- ha ritenuto che le cose fossero andate abbastanza avanti, gli scopi prefissi più o meno raggiunti, e i pericoli del preordinato straripamento più grandi ormai dei possibili vantaggi che esso poteva offrire, al fine di sgominare la resistenza di certi quadri del partito e del regime al potere del dittatore Mao Tse Tung. Chiudere le scuole, scatenare quaranta milioni di ragazzi sulle strade e nelle città della Cina, mettendo a loro disposizione le ferrovie e gli altri mezzi pubblici di trasporto e procurando che venissero nutriti e alloggiati a spese dello Stato, sono misure forse politicamente geniali, ma che non sembrano caratteristiche di un movimento spontaneo destinato a «purificare» un regime delle sue «tare autoritarie». Si direbbe piuttosto che un tal movimento è tipico di un moderno e assai astutamente concepito regime di massa. E regime di massa è sinonimo, ci sembra, di regime non solo autoritario, ma totalitario. Ciò non soltanto, nella fattispecie, per la mostruosa fanatizzazione condotta in base al famoso libretto dei pensieri di Mao, ma semplicemente perché manovrare le masse (e in particolare le masse giovanili) per mezzo di meccanismi ideologico-burocratici, anche e soprattutto quando le si scatenano contro obbiettivi prestabiliti, è il segno non equivoco dei regimi totalitari moderni, passati, presenti e (probabilmente) futuri.
Ribellarsi contro un «sistema» -quello occidentale- definito «autoritario» e «alienante» basandosi su tali esempi e su tali definizioni sembra parecchio contraddittorio. A meno, naturalmente, che la «rivoluzione» auspicata non sia di specie massiccia e totalitaria: un’ideocrazia sostenuta da una burocrazia, diretta (come sembra suggerire la nota di Gian Franco Invernizzi) a sgominare ogni bieco «riformismo ».
Ma in qual modo d’altra parte conciliare un simile ideale (se di esso si tratta), o quanto meno un simile giudizio e la logica in esso implicita, con l’affermazione che, contrariamente a quello cinese, il movimento studentesco occidentale è un «fatto di élite, di avanguardia»? Sarà esso per caso qualcosa di analogo all’«avanguardia del proletariato» secondo Lenin (diciamo «secondo Lenin» e non «secondo Marx» perché la concezione che aveva Marx dell’avanguardia rivoluzionaria era alquanto più complessa di quella nettamente minoritaria e autoritaria, propria di Lenin)? Ma, in tal caso, sarebbe pur sempre a un regime di massa che si aspirerebbe, a quella dittatura del proletariato della quale già prima del 1914 Charles Peguy diceva che gli sarebbe piaciuto sapere chi -quale individuo particolare- l’avrebbe impersonata e esercitata.
Una dittatura, quale che sia il motto sulla sua bandiera, ha, fra le altre conseguenze, quella di «alienare» duramente non solo tutti coloro che non l’applaudono e non se ne lasciano irreggimentare, ma anche (e forse soprattutto) quelli che la applaudono e la seguono entusiasti: basta il fatto di vestire un’uniforme, di agitare un libretto, di sfilare in parata, di alzare il braccio nell’una o l’altra forma di saluto al «capo geniale» per essere alienati e asserviti in quanto individui autonomi e possibilmente pensanti. Sarebbe interessante conoscere l’opinione del direttore responsabile dell’agenzia Faro su questo punto, con aggiunta la dimostrazione della superiorità dell’alienazione proletaria, socialista, comunista, o comunque denominata, su quella attribuita al neocapitalismo «consumista».
D’altra parte, con generoso impulso, il direttore responsabile dell’agenzia Faro prende partito in favore dell’attuale rivolta della gioventù e degli intellettuali in Cecoslovacchia e in Polonia (e insomma anche in Russia) contro i rispettivi regimi totalitari, affermando che «l’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà tout court». Il quale fatto sembra peraltro, all’autore di questa nota, indicare che il movimento occidentale è «più avanzato, nei suoi contenuti, di tutta una fase rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo».
Strana argomentazione. La «formale creazione di istituti» di cui si tratta in Cecoslovacchia e in Polonia è, in sostanza, esigenza di democrazia effettiva nella gestione degli affari pubblici e di «libertà tout court» quanto al diritto di comunicare con i propri simili sia per mezzo della parola parlata che della stampa e degli altri mezzi d’espressione. In che senso in Occidente tali diritti e istituti «cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza»? In che senso, poi, tale usura e inadeguatezza sarebbero prove del carattere più avanzato dei movimenti studenteschi occidentali? Sarebbe per caso ormai, in Occidente, la «libertà tout court» «un cadavere putrefatto», secondo la celebre asserzione fatta nel 1922 da un notevole manovratore di masse di nazionalità italiana, del quale certo il direttore responsabile dell’agenzia Faro non ha bisogno che gli si ricordi il nome? E sarebbe d’altra parte per caso l’«alienazione» di cui tanto si parla altro che asservimento e mancanza di libertà? Non potrebbe per avventura darsi che ogni rivendicazione politica, quale che ne sia l’impulso ispiratore, fosse sempre una rivendicazione di «libertà tout court», di libertà senza aggettivi, e che un tal fatto andasse riconosciuto una volta per tutte da tutti coloro che si dicono «rivoluzionari», e i quali invece oggi indulgono in una distinzione fra «vera libertà» e «falsa libertà», «libertà concreta» e «libertà astratta» che non può non confondere le idee e far dimenticare il senso della cosa di cui si tratta? La quale è proprio la libertà tout court, anzi la libertà formale, la libertà come forma del vivere civile, eguale per tutti e a disposizione effettiva di tutti: la libertà che Rosa Luxembourg rivendicava fieramente di fronte a Lenin nell’ora del trionfo della dittatura del proletariato, e cioè di quella «libertà concreta» rappresentata, secondo il medesimo Lenin, dal «fucile sulla spalla dell’operaio».
Ma, se non sembra avere idee molto chiare quanto alla libertà e alla democrazia, il direttore responsabile dell’agenzia Faro, bisogna riconoscerlo, si rende conto della china pericolosa su cui si può scivolare seguendo il richiamo del mito rivoluzionario. Questa china è secondo lui, quella della violenza, la quale apparirebbe tanto più attraente, come strumento di lotta politica, quanto più forte diventa «il grado d’integrazione del sistema». E di fronte a questa attrattiva sempre più grande della violenza, «non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale».
La conclusione di Gian Franco Invernizzi è che esiste, nelle nostre società, «un problema di prevenzione, di democratizzazione e un problema di repressione», quindi «la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei e efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione». Ad esempio di buona soluzione di un tal problema, il direttore dell’agenzia Faro non esita a proporre quello dell’America, «dove ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza».
Conclusione altrettanto sensata quanto inattesa. E tuttavia poco convincente. Non solo perché ci sarebbe pur qualcosa da dire sui metodi usati dalla polizia americana quando si trova dinanzi a scoppi di violenza di massa, ma soprattutto per l’ovvio non sequitur del ragionamento. Il quale non sequitur si riduce a questo: se il «richiamo riformista» è inutile, e quel che le minoranze rivoluzionarie studentesche vogliono è il mutamento totale del «sistema», la violenza è il mezzo non solo logico ma inevitabile a cui esse devono ricorrere, correndo al tempo stesso il rischio -è evidente- della violenza contraria dell’apparato repressivo statale. Non si può volere tutto, e volerlo nel futuro immediato, senza perciò stesso volere la violenza: la violenza è già nell’idea, e dall’idea al fatto il passo è più che breve.
Ma se poi «rifiuto del sistema» e «contestazione globale» sono dei modi di dire massimalisti (come in fin dei conti sembra il caso nella sommossa degli studenti), e si tratta invece in sostanza di «richiamo riformista», e di «lasciare a tutti la più ampia libertà d’espressione», allora non siamo forse nell’«ambito del sistema» (il quale, in Italia come in altri luoghi d’Occidente, è a dir poco alquanto ambiguo sia quanto a energia riformista che quanto a libertà di espressione), ma siamo certo fuori dal rivoluzionarismo senza oggetto di cui tanto abuso s’è fatto, e per tanti anni, assai prima che dai giovani, dai loro pessimi maestri e falsi pastori intellettuali.
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