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L'«UNITA'» periodico (1911-1920) di Gaetano Salvemini.

«Il Ponte», novembre 1945

Col secondo decennio del Novecento incomincia per l'Italia, impegnata nella guerra di Libia, che fu il pròdromo delle guerre balcaniche, quel periodo di crisi, il quale succedette agli aurei due lustri iniziali del secolo. Crisi, che condusse al primo conflitto mondiale, seguito, come tutti sappiamo e ricordiamo, da una pace così malcerta, sia fra stati, sia all'interno di alcuni di essi, che non poteva non sfociare, prima o poi, in quella seconda conflagrazione da cui siamo a mala pena usciti. Il ripercorrere in sintesi i commenti, coi quali uno storico di professione, ma soprattutto un polemista nato come Gaetano Salvemini, e la schiera di scrittori che gli facevano corona, annotarono via via gli eventi di quel decennio, può offrire, non solo un'occasione di appassionanti reminiscenze per chi ha vissuto quegli anni, ma altresì di utili comparazioni ed ammaestramenti, tanto pei lettori più anziani, quanto, ed anzi ancor più, per i giovani, che di quell'epoca non possono avere se non una conoscenza indiretta.

L' Unità nacque quando da circa tre mesi si combatteva in Africa. Il suo primissimo articolo, naturalmente redazionale, s'intitolava: Tripoli e i socialisti (16 dicembre 1911). Ed era un attacco su due fronti; da un lato combatteva i socialisti, perché non avevano saputo opporre una campagna seria e nutrita alle panzane nazionalistiche che avevano montato l'opinione pubblica per l'impresa libica; dall'altro lato, pure augurando, già che si era in guerra, che il paese ne traesse tutti i vantaggi possibili, incominciava a denunciare quelle trottole ed a mettere in guardia contro le eventuali ubbriacature imperialistiche.
Si può osservare subito che, fin dall'inizio, si fanno sentire due, di quelli che, durante l'intera vita del giornale, ne saranno i motivi predominanti. Uno dei quali, la lotta contro i partiti di sinistra, e specialmente di estrema sinistra, svolto sopra il tema quasi costante del «giolittismo», al quale quelli sarebbero stati, non del tutto disinteressatamente, proni. (E si può aggiungere fin d'ora, in parentesi, che una delle caratteristiche del temperamento di Salvemini —come anche di taluno, il quale può dirsi suo discepolo, e di movimenti e periodici, che in qualche guisa ne continuarono l'opera— è sempre parsa la necessità, quasi direi fisica, di polemizzare soprattutto con quelli, che doveva considerare più vicini, forse per il desiderio di attirare a sé quanti di cotesti fratelli-nemici considerava i migliori: v'è chi, fra i lettori di queste righe, rammenterà —mutatis mutandis— le campagne del nostro povero Carlo Rosselli in Giustizia e Libertà?).
Pur avendo immediatamente una fisionomia politica tutta particolare, l'Unità presentò questa singolarità giornalistica: ch'essa nacque senza esporre al pubblico un suo programma. Come mai? Rammento io stesso che, proprio sul principio, nel gruppo che doveva coadiuvare il Salvemini, erano sorte certe difficoltà; e, nel risfogliare le vecchie pagine del periodico che ho conservato e mi è caro, leggo, in alcune affettuose righe necrologiche dedicate a Mario Calderoni (18 dicembre 1914), un accenno al disinteressato slancio di quel nostro compianto amico, il quale, avendone noie assai gravi, si era assunto non so più quali responsabilità «in un momento di penosissima crisi interna, che non appena pubblicati i primi numeri» del giornale, aveva minacciato di troncare ogni possibilità di lavoro. Ma proprio non ricordo se quella «crisi» (che allora aveva fatto chiedere a taluno come potesse intitolarsi proprio Unità un foglio, la cui redazione appariva da principio così poco unita) fosse di natura politica.
Certo è che bisogna aspettare fino al marzo 1912 per trovare una risposta programmatica all'interrogativo della direzione: Che cosa vogliamo? Facendo proprie le argute parole di Ruggero Bonghi —essere il programma d'un giornale «cosa promessa prima e non mantenuta dopo»— lo scrittore dell'articolo (9 marzo), ch'era con tutta probabilità lo stesso Salvemini, continuava: a chi ci conosce, non ha bisogno di programma; chi non ci conosce, legga il giornale, e vedrà di settimana in settimana svilupparsi il nostro programma». Sì, i redattori dell'Unità avrebbero potuto dire:

«Noi non pretendiamo di rinnovare la faccia della terra; noi non portiamo in tasca la panacea per rifare l'umanità e per guarire tutti i mali; noi vogliamo semplicemente richiamare l'attenzione degli Italiani su alcuni determinati problemi, che reputiamo, sopra tutti gli altri, gravi, per il nostro paese; problemi che i politicanti della democrazia hanno dimenticato o —peggio ancora— rifiutato di prendere in esame. Di questi problemi cercheremo le soluzioni, all'infuori dei pregiudizi e degl'interessi degli attuali partiti, che ci sembrano ridotti tutti alla incapacità di elevarsi al di sopra dei piccoli legami di consorteria e di setta, e ci sforzeremo di diffondere nel paese la convinzione della necessità e dell'urgenza di quelle soluzioni».

Ma questa, seguitava lo scrittore, non sarebbe stata se non una «promessa teorica», che avrebbe avuto valore solo per quel tanto che la si fosse adempiuta. La collezione del giornale, che non per nulla ha avuto dal primo all'ultimo numero il sottotitolo: Problemi della vita italiana, è lì a dimostrare che gli «unitari» hanno tenuto fede alla loro parola.
Se, poi, si volesse riassumere, più che il programma, l'indirizzo politico dell'Unità in un paio di slogans —per usare il termine scozzese, oggi di moda— potremmo dire, mutuando dalla continuazione dell'articolo ora citato (16 marzo 1912) i titoletti di due suoi brani, che il giornale voleva essere «contro i democratici per la democrazia» e «per la nazione contro i nazionalisti».
Dunque —diceva l'anno appresso Rodolfo Savelli, indirizzando al Salvemini una lettera aperta—, dunque «noi dobbiamo riaccostarci all'insegnamento mazziniano» (7 marzo 1913); dunque l'Unità, incitando l'Italia e gli Italiani ad una politica più alta, dovrebbe farsi l'aralda di un «nostro» nazionalismo. Ma Salvemini, il quale, per l'austerità della sua coscienza, ha sempre sentito il pudore di astenersi dallo sbandierare la propria fede morale, gli rispondeva che un presupposto ideale è, bensì, «il presupposto necessario di qualunque movimento politico, che si rispetti», ma che l'Unità voleva essere, anzitutto, un giornale tecnico. Quanto al nazionalismo, poi, se pure distinto con l'aggettivo possessivo «nostro» da quello... altrui, senza escludere la possibilità di andar d'accordo con qualche gruppo di nazionalisti per qualche campagna immediata (come avvenne, infatti, due anni appresso, nel patrocinare l'intervento, anche se con ben altri motivi), osservava che, in tutti i nazionalisti, anche in quelli che allora erano dissidenti dalla maggioranza del loro partito, c'era pur sempre

«uno stato d'animo... che li caratterizza e li classifica come consanguinei degli imperialisti, e quindi come avversari nostri: una visione megalomane delle capacità attuali dell'Italia, un eretismo sciovinista che li ha spinti ieri ad aderire senza controllo alla infatuazione tripolina e li spingerà domani a fare altrettanto di fronte a qualunque altra analoga impresa...»,

e via discorrendo (14 marzo 1913). E quando il Savelli, di fronte alla «degenerazione socialista», ribadiva: dunque, noi (dell' Unità), «noi non siamo socialisti», Salvemini evidentemente riluttava dall'accettare tale spiccia definizione negativa (4 aprile 1913). Il «blocco» dell'Unità —egli aveva scritto poco prima (21 marzo)— era un blocco di uomini, non di partiti, che intendeva porsi in mezzo fra il blocco dei gruppi clerico-moderati e quello dei gruppi giolittiani-radicali-riformisti, e tendeva ad approfondire, aggravare, accelerare la crisi dei partiti che si chiamavano democratici (e par di leggere ante litteram gli attacchi di Carlo Rosselli per affrettare la crisi della parigina concentrazione antifascista) per rivendicare «le ragioni di una democrazia e di un socialismo non falsificati» (21 marzo 1913). Pantaleo Carabellese, partecipando egli pure, come qualche altro, alla discussione programmatica (6 giugno), si compiaceva di qualificare il concretismo dell'Unità come un principio fondamentale che, essendo ben diverso da un accidentale empirismo o da un cieco realismo, non era se non la deduzione pratica dell'idea di giustizia, quale si rifrangeva nell'esame dei problemi particolari; e additava come predominanti fra essi, in quel momento, la quistione doganale e la quistione libica. Mi sono indugiato un poco su tali argomenti più generali, relativi all'impostazione ideale ed all'indirizzo politico dell'Unità, come giornale e come movimento, sopra tutto perché ciò serve a chiarire quasi ognuna delle non poche battaglie combattute nella sua pur breve vita, anche se Gaetano Salvemini, spirito a-filosofico nonostante l'intima, ma inconsaputa, vocazione di moralista, di tali discussioni teoretiche avesse —io ne sono convinto— anziché il gusto, una certa impazienza, appassionato com'era allora, e com'è sempre rimasto, di fatti e di problemi concreti. Ora che tali problemi appariranno meglio illuminati dalle idee testé esposte, potremo procedere molto più spediti.
Ecco, anzitutto, la guerra di Libia e le questioni da essa poste, che, nel primissimo periodo del giornale, richiamarono quasi in ogni numero l'attenzione dei suoi collaboratori. Poteva, bensì, aver ragione Giustino Fortunato —il nobilissimo uomo politico e studioso del problema meridionale, che fu uno dei numi tutelari dell'Unità—, quand'egli, il «pessimista addolorato», dubbioso fino allora che l'unità nazionale fosse sentita dalle plebi del mezzogiorno, scriveva che dalla guerra di Libia aveva avuto la rivelazione che anche i contadini delle più differenti regioni avevano acquistato la coscienza, sia pure confusa, della patria comune (19 ottobre 1912). Ma questo vantaggio psicologico e civile —che la guerra mondiale avrebbe consolidato con tanto maggior vigore— ed altri risultati positivi della campagna africana non bastavano certo a coonestare le «falsificazioni libiche», cioè tutte le fandonie che i nazionalisti, fossero essi giornalisti o, magari, così detti scienziati, non si peritavano di pubblicare per riempire la testa degl'ingenui con le esaltazioni della colonia, che il sangue dei valorosi soldati andava conquistando od aveva appena conquistata: tipiche, per esempio, le sciocchezze... attribuite ad Erodoto o a Plinio (6 gennaio 1912) o quelle dette, in persona propria, da qualche professore d'Università.
Il problema doganale, poi, è una delle questioni economiche e politiche più attentamente e ripetutamente trattate dal giornale, durante l'intera sua vita, soprattutto per dimostrare i danni che ai consumatori in generale, cioè alla maggioranza della nazione, venivano da ogni sorta di protezionismo. Studiosi della competenza di de Viti de Marco, di Giretti, di Gino Luzzatto, per tacer d'altri, hanno preso più e più volte la penna in argomento. Si veda, per fare un solo esempio dell'interesse prestato a tale questione dall'Unità, il numero del 12 settembre 1913, ch'è interamente dedicato alla campagna antiprotezionistica, cioè a denunciare gli assurdi e le contraddizioni logiche del protezionismo, a combattere «i feudatari del ferro», «i baroni dello zucchero», «i filibustieri del cotone», i fautori del dazio sul grano. Né il giornale sottace —anzi, è questa una delle sue note più insistenti (e, mi si permetta di dirlo, a mio avviso troppo spesso eccessive e quindi... stonate)— le critiche a quello ch'esso chiama il protezionismo operaio, denunciando, con manifesta generalizzazione di qualche caso particolare, il «giolittismo» di deputati ed organizzatori socialisti come un do ut des in compenso dei lavori e dei favori accordati ai privilegiati ceti proletari del settentrione -cioè a quella «minoranza di lavoratori manuali», operai e braccianti agricoli «della zona Genova-Milano-Torino-Ravenna», «che si sono costituiti in oligarchia alleata con la grossa borghesia capitalistica per lo sfruttamento di tutto il resto della nazione italiana» (21 giugno 1919, in postilla proprio ad un mio scritterello).
Ragioni di spazio m'impediscono di soffermarmi, fosse pure per un istante, su altri problemi —come, per esempio, il problema meridionale e quello scolastico—, discussi con particolare predilezione dall'Unità in tutti i nove anni della sua esistenza. Per terminare, intanto, questa scorsa attraverso il periodo prebellico, basterà rammentare che Salvemini è stato candidato politico in Puglia nelle elezioni del 1913. Della sua sfortunata campagna elettorale si trova l'eco nel suo periodico, sopra tutto a proposito delle violenze che fautori del suo avversario, repubblicano ma spalleggiato dal Governo, avrebbero esercitate sopra gli elettori. Esagerazioni? Io non mi propongo davvero il compito né l'intento di assumere le difese di Giovanni Giolitti, per la cui politica non ho mai avuto simpatie; ma domando se fosse lecito ingiuriarlo nientemeno che con l'epiteto di «ministro della malavita», che, com'è noto, è stampato su la copertina d'un libro di Salvemini contro di lui. Ed osservo, dopo aver ripercorso tutti i numeri dell' Unità, che, quando si leggano i discorsi parlamentari, ivi riprodotti, tenuti dal Salvemini dopo che, nel 1919, fu eletto deputato, non si può non rendersi conto che il tono delle parole da lui pronunciate alla Camera, anche quand'erano polemiche verso il Giolitti (il quale, se lo interrompeva, lo faceva senza acrèdine) era infinitamente più pacato. Mi viene in mente l'aneddoto relativo a quello scrittore inglese (era il Lamb?), il quale, a chi gli chiedeva se egli conoscesse di persona un tale di cui parlava con sprezzante antipatia, avrebbe risposto: «oh no ! se lo conoscessi, certamente non lo potrei detestare». E poiché io sono abituato a discorrere con franchezza e nel riassumere qui la storia dell'Unità, non intendo fare l'apologia del giornale e nemmeno del suo direttore, pur volendo parlare con sostanziale simpatia e con rispetto, quali io sento per lui, del mio vecchio amico Salvemini (del quale mi piace rammentare come lealmente solesse ricredersi quando gli si dimostrasse, senza volerlo né riprendere né offendere, che una sua opinione era errata), mi sia permesso di notare a questo punto che, per l'irruenza del suo temperamento, gli è accaduto più d'una volta di prendere, come si suoi dire, qualche più o meno solenne cantonata: tipica quella, di cui è documento l'Unità del novembre 1912, a proposito della storiella circa la pretesa appartenenza di Claudio Treves alla massoneria; ogni lettore di buona fede poteva giudicare fin d'allora, dalla pietosa fine della polemichetta, chi fra i due —se Salvemini o il mio povero Claudio— avesse piena ragione.

Il secondo dei periodi, che possiamo distinguere nel corso dell'Unità, si accentra intorno alla guerra 1914-18.
Tutti sanno —ed almeno tutti quelli che hanno vissuto quell'epoca ricordano— che Gaetano Salvemini fu, come allora si diceva, un «interventista». Rammento un motto, ch'egli soleva ripetere (non l'ho trovato nell'Unità, ma forse c'è, ed a me è sfuggito) a proposito delle rivendicazioni italiane: che sarebbe stato, bensì, un delitto «mettere a fuoco la casa per cuocere un uovo», ma che, quando l'incendio era stato appiccato all'Europa per colpa d'altri, bisognava non perdere l'occasione della guerra per la successione dell'Austria per annettere le terre italiane, che quella deteneva, all'Italia.
Sarebbe ingiusto, però, accomunare il Salvemini e l'Unità a quanti altri, uomini giornali e gruppi, approfittarono della propaganda per l'intervento dell'Italia nel conflitto, della dura guerra in cui il nostro paese fu impegnato, della rotta militare di Caporetto, delle delusioni italiane al tavolo della pace, dell'impresa dannunziana di Fiume, per sfogare livori partigiani, per rinfocolare sentimenti e rancori nazionalistici, per spingere il popolo italiano su le rovinose strade della reazione o dell'imperialismo. Nonostante certe intemperanze, che furono comuni a tutti gli interventisti, l'atteggiamento del Salvemini e dei non molti che la pensavano come lui, merita un posto a parte.
La guerra, che per alcuni doveva essere l'inizio d'un periodo di espansione imperialistica, che da altri era concepita anzitutto come una bella avventura, o che (secondo una frase celebre ed infelice) doveva essere guidata dal «sacro egoismo» nazionale; la guerra, dico, per Leonida Bissolati e per quel «nucleo piccolo, ma incrollabile, di suoi interpreti, sostenitori, annunziatori» (come disse, appunto, l'Unità al momento della sua scomparsa: vedi 13-20 maggio 1920), nucleo ch'era rappresentato quasi esclusivamente dagli «unitari», doveva essere una guerra per la pace. Una guerra, cioè, contro l'imperialismo germanico, che appariva il più minaccioso degl'imperialismi; una guerra contro ogni forma di nazionalismo, fosse esso gretto oppur megalomane, e per il trionfo del principio di nazionalità stoltamente calpestato dall'impero austro-ungarico; una guerra, dunque, che, assicurati i confini d'Italia, permettesse all'Italia di stendere, al di là dell'Adriatico, una mano amica agli Slavi, di farsi campione e guida delle piccole nazioni, in particolare di quelle fino allora oppresse dall'Austria, d'iniziare finalmente quella politica di giustizia nazionale ed internazionale, che le era stata additata da Giuseppe Mazzini.
Non c'è che da sfogliare il periodico di quegli anni —dal luglio 1914 ai primi del 1919— (ricordiamo le due interruzioni, la prima di due mesi nel 1914, l'altra dal giugno 1915 alla fine del 1916) per cogliere, malgrado le amputazioni, spesso feroci, della censura, la frequentissima, perfino qualche volta monotona, ripetizione di quei motivi fondamentali della politica del Salvemini e dei suoi amici (ad incominciare dal de Viti de Marco, allora condirettore del giornale) rispetto al conflitto europeo. Contro il neutralismo dei socialisti (anche, diciamolo pure, con attacchi personali peggio che sgarbati, che, a mio parere, di allora e di oggi, neppure le passioni del momento giustificavano), ma altresì, e con asperrima vivacità, contro il nazionalismo: vedansi —per fare solo un paio di esempi— i brani superstiti d'un censuratissimo articolo di Edoardo Giretti contro i «sistemi da Tecoppa» dell'Idea Nazionale (9 marzo 1917) e la gustosa polemica con certo effimero giornale di quei tempi Il Fronte interno («molto fronte, niente cervello»: aprile-maggio 1917). Vedansi i tanti e tanti articoli (alcuni, ricordiamolo, scritti in epoca alquanto anteriore alla guerra, ed opportunamente richiamati di poi) intorno all'Austria, alla sua politica balcanica, al problema dell'Adriatico (come, per esempio, quelli del gennaio e febbraio 1912 su le alleanze ; cfr. 14 agosto 1914); vedasi, fin dal primo numero della ripresa del giornale in piena guerra (8 dicembre 1916), lo scritto di Salvemini: La guerra per la successione d'Austria, nel quale si sosteneva che, per isolare la Germania, non c'era che una sola via, quella di smembrare l'Austria-Ungheria; o, verso la fine della guerra (7 settembre 1918), si guardi l'altro articolo (ahi, quanto imbiancato —anzi, in questo caso, annerito— dalla censura!) «Austria delenda» o «Austria servanda».
Ma si ponga attenzione, anzitutto e soprattutto, alla insistente, coraggiosa, mazziniana propaganda per una leale intesa ed amicizia con gli Slavi del Sud, cioè con gli Jugoslavi (nel numero del 13 settembre 1917 Salvemini, in polemica con Pantaleoni, gli ricordava che il termine «Jugoslavo» —il quale «fa su certi sciocchi l'impressione del cencio rosso sul toro»— significa semplicemente «Slavo del sud», e si era incominciato ad usare verso il 1860 per distinguere Sloveni, Croati, Serbi, Bulgari dagli «Slavi del nord», cioè dagli Czechi, Polacchi, Ruteni, Russi). Propaganda che, iniziata fin dal principio della guerra europea, e cioè assai prima dell'intervento italiano (vedi l'articolo pubblicato il 7 agosto 1914: Fra la grande Serbia ed una più grande Austria), e continuata dopo la partecipazione dell'Italia al conflitto (quel valentuomo di Arcangelo Ghisleri, nel salutare la rinata Unità —8 dicembre 1916— notava «l'insussistenza etnica e geografica della campagna slavòfoba»; quell'altro valentuomo di Antonio de Viti de Marco, combatteva —24 maggio 1917— i due opposti imperialismi, italiano e jugoslavo), tale propaganda, diciamo, culmina nel Congresso di Roma dell'aprile 1918, che adunò i rappresentanti dei popoli oppressi dall'Austria, congresso, la cui convocazione era salutata, dal periodico di cui stiamo parlando, come un'idea «veramente mazziniana» (13 aprile 1918).
Ma è noto —o va reso noto specialmente a quei giovani che non lo sapessero, e va ricordato agl'immemori— che anche i più fedeli seguaci del programma politico, italiano e internazionale, di Giuseppe Mazzini, il quale aveva per fondamento il geloso rispetto del principio di nazionalità, come ad esempio Bissolati e Salvemini, furono svillaneggiati, in Italia, come «rinunciatari». Termine, che si può ben dire contenesse, tutt'insieme, uno sproposito storico-politico ed uno sproposito linguistico: storico-politico, perché mostrava un disconoscimento, sia delle migliori tradizioni nazionali, sia dei reali interessi dell'Italia, che non potevano efficacemente salvaguardarsi se non con legittime ragioni, cioè con pretese giustificate; uno sproposito linguistico, perché —se mandatario, depositario, locatario indicano coloro ai quali è conferito il mandato, è affidato il deposito, è accordata la locazione— il brutto neologismo «rinunciatario» avrebbe dovuto indicare, se mai, colui, a favore del quale la rinuncia era offerta, non già colui che tale rinuncia intendeva fare.
Proprio perché fedeli alle idee mazziniane, cioè rispettosi delle altri legittime aspirazioni nazionali, non meno che gelosi delle proprie, Bissolati, Salvemini e quanti la pensavano come loro, avevano maggior diritto dei nazionalisti ed imperialisti italiani d'invocare il rispetto, da parte di ogni altro popolo o stato, delle terre italiane. «Pensiamo all'Istria», s'intitola un articolo di Salvemini, pubblicato nell'Unità del 27 aprile 1918; «l'Istria e l'Italia» s'intitola un altro articolo, parzialmente riprodotto dall'Emporium nell'Unità del 3 agosto di quello stesso anno, che porta la firma di Arcangelo Ghisleri. Il 7 febbraio 1920, infine —per non varcare i limiti dell'epoca, che stiamo esaminando— Gaetano Salvemini aveva «l'onore» di unire il proprio nome a quello di Leonida Bissolati sotto una mozione presentata alla Camera dei Deputati, a conclusione d'un suo discorso nel quale poteva dimostrare quanto meglio la politica caldeggiata da entrambi avrebbe tutelato gl'interessi italiani, anche nei confronti degli Jugoslavi, che non il famoso trattato di Londra od il compromesso di Parigi, col quale si cercava di correggerlo. Al discorso, pubblicato nell'Unità del 12 febbraio 1920, il giornale dava il titolo, che suonava come una rivendicazione e una sfida: «noi, rinunciatari!».

I discorsi, che Salvemini, eletto deputato —come già s'è detto di passata—, alla fine del 1919, tenne alla Camera e pubblicò nel giornale, di cui, fin dal principio di quell'anno, era ridivenuto il solo direttore, costituiscono, forse, le cose più interessanti, che si possano leggere nelle due ultime annate dell'Unità. Non voglio dire con ciò che, anche all'infuori di quei discorsi, il periodico non offrisse più in quei due anni, che furono anch'essi densi d'importanti avvenimenti interni ed internazionali, una lettura utile, e, a chi oggi ne ripercorra le colonne, non fornisca tuttora materia di proficue riflessioni. Che anzi —oltre scritti di argomento ed anche d'interesse storico, come, per esempio, la descrizione, fatta da un testimone oculare, della morte di Cesare Battisti, terribile nella sua nudità (17 luglio 1919) o l'ampia e serena disamina della rotta di Caporetto (21 e 28 agosto 1919)— troviamo in quelle annate molte altre discussioni, che allora poterono orientare su certi problemi, ed ancora possono aiutare a meglio comprendere il momento in cui quelle quistioni si agitavano ed il modo d'impostare e di risolvere alcune di esse, che sono ancora di attualità. Così —che so io ?— argomenti tutt'altro che frusti si potrebbero ripescare negli articoli dedicati, nel 1919, alla rappresentanza proporzionale, oppure alla difesa degl'Italiani di Dalmazia (25 gennaio 1919), od anche nei molti scritti su la Società delle Nazioni, che stava allora sorgendo in mezzo a tante speranze, ma a proposito della quale gli scrittori del giornale si chiedevano, ansiosi, se la guerra appena terminata si fosse combattuta, come avrebbero voluto Wilson e Bissolati, per attuare l'ideale mazziniano di giustizia per tutti, o non piuttosto se si stesse costruendo una pace foriera, come fu, di nuove guerre (vedi, per esempio, l'articolo Il discorso di Milano, 18 gennaio 1919).
Può far meraviglia che fin d'allora, cioè proprio in occasione del coraggioso discorso, tenuto alla Scala l'11 gennaio da Leonida Bissolati, discorso che fu subissato dalla canea degl'imperialisti, anche se camuffati da rivoluzionari, tipo Mussolini, l'Unità non abbia preso posizione più decisa contro quest'ultimo. Può far meraviglia che la costituzione dei fasci di combattimento, avvenuta in quella che fu poi esaltata come la data «storica» del 23 marzo 1919, non abbia destato nel battagliero giornale nemmeno la breve eco d'una chiosa e che, a proposito d'una delle prime malefatte degli squadristi, l'invasione e l'incendio dell'Avanti! (rammento come fosse ieri quel giorno, e l'atmosfera arroventata di Milano), l'Unità non abbia se non pubblicato tardivamente una lettera di «un amico», definito «ottimo osservatore», in cui si faceva una rassegna dei vari partiti, con qualche critica a Mussolini, «troppo screditato per i suoi atteggiamenti eccessivi», lettera seguita da un breve commento redazionale, soprattutto ironico contro i socialisti, i quali, dopo la brutale devastazione del loro giornale, non avevano saputo scatenare immediatamente la rivoluzione (26 aprile 1919). Può fare, ancora, meraviglia che l'avventura dannunziana, contro la quale poi Salvemini ebbe a manifestare più volte il suo severo giudizio, pur rivendicando il carattere italiano della città del Carnaro, fosse dapprima battezzata niente più che come «l'incidente di Fiume» (18 settembre 1919), senza che di quel «fenomeno di militarismo», che incominciò a smagliare la disciplina dell'esercito, se pur fin d'allora denunciato come altro dei coefficienti dell'impresa, in cui certamente avevano avuto parte anche disinteressati entusiasmi giovanili, non s'intravedesse fin d'allora il pericoloso sintomo prodromico della futura rivoluzione reazionaria. E, finalmente, può far meraviglia la scialba attenzione dedicata, nel settembre 1920, all'occupazione delle fabbriche, che, seguita a poca distanza dal Congresso di Reggio Emilia, segnò, se non altro, una svolta della politica socialista.
Vero è che lo stesso Salvemini, nel sospendere col numero del 30 dicembre di quello stesso anno il giornale, diceva che, a causa delle sue troppe occupazioni, «in alcuni periodi» l'Unità era «riuscita fiacca e sbiadita». La quale ammissione era, a parer mio, esagerata. Vero è invece e dev'essere onestamente confessato, che le ora accennate.... meraviglie di chi ha scorso, nel 1945, con occhio critico, un periodico degli anni 1919 e 1920, possono apparire, ed essere, nient'altro che il frutto d'un facile senno del poi!
Ma anche a prescindere dagli avvenimenti posteriori, che fanno vedere appunto sott'altra, più cruda luce eventi i quali ne furono l'anticipazione, è pur certo che l'Unità in quei due anni, e specialmente nel 1919, mirò, più che ad altro, a creare, in varie citta, «gruppi di azione» cioè un movimento che fiancheggiasse il programma di attività pratica sostenuto dal giornale, movimento da cui sorse un organismo (il quale fu, se mal non ricordo, di breve durata), che s'intitolò «Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale» e diede luogo a lunghe discussioni nelle colonne del periodico su l'opportunità o meno di trasformare l'organismo stesso addirittura in un nuovo partito. Quali fossero i principi della «Lega» degli «unitari» è agevole immaginare: quei principi erano — sebbene la relativa «dichiarazione» fosse ripetutamente rielaborata — «il succo» di quanto l'Unità aveva sostenuto fin dal suo primo numero (vedi 22 marzo, 5 e 26 aprile 1919). E se si scorrono gli ordini del giorno, le relazioni, le discussioni, sia dei convegni dei «gruppi», sia di quello della «Lega» tenuto a Firenze nell'aprile 1919, sia dell'altro tenuto a Roma ai primi di giugno del 1920, segnatamente sui vari problemi concreti — burocratico, scolastico, agricolo e particolarmente su quello del latifondo, tributario, doganale, delle nuove provincie di politica estera, ed in ispecie su quello adriatico, dell'Albania, dell'Asia Minore —, si avvertirà, com'è naturale, assai frequente l'eco di quanto s'era dibattuto nell'Unità fin dai primi anni della sua vita. Nel già ricordato cenno su la sospensione del giornale (30 dicembre 1920) — sospensione che, contrariamente al desiderio di molti amici, doveva segnarne la definitiva cessazione —, Salvemini osservava che, per il prossimo periodo della vita pubblica italiana, «i problemi urgenti saranno quelli del regime doganale e della riforma dell'amministrazione»; in questo campo, aggiungeva, «l'Unità ha ben poco da dire, che non abbia già detto negli anni passati» ed invitava gli amici, come si proponeva di fare egli stesso quando se ne presentasse l'occasione, a «travasare... nei giornali quotidiani» le idee, che insieme avevano contribuito a diffondere nel foglio settimanale.
Ma già da oltre un anno Salvemini aveva a sua disposizione una tribuna, d'onde la sua voce poteva avere una risonanza ben più vasta ed efficace di quella offerta dalle colonne di un giornale ebdomadario od anche quotidiano. Eletto deputato, come si è già avuto occasione di rammentare, alla fine del 1919, nella lista dei combattenti della provincia di Bari, ben presto e sovente egli taceva udire alla Camera la sua parola, documentata e tagliente, sui problemi che più gli stavano a cuore. Se, come testé accennavo ognuno di quei discorsi, qualunque argomento trattasse, offre una delle letture più attraenti delle due ultime annate dell'Unità, particolarmente notevoli mi sembrano quelli dedicati esclusivamente alla politica estera, o quei passi nei quali, pur prendendo in considerazione l'intero indirizzo del Governo, il parlamentare (che, se non erro, non rimase alla Camera che una sola legislatura) si soffermava con cura particolare su quei vitali argomenti. Sui quali ebbe sempre ad esprimere opinioni, allora ed ancora oggi degne d'essere prese in attento esame. Sia che, come nel discorso del 21 dicembre 1919 (Unità, 25 dicembre), discutesse il problema adriatico, invocando la neutralizzazione di tutto quel mare, sia che nel parlare, il 2 luglio 1920, sul ministero Giolitti, si dichiarasse, fra l'ilarità della Camera, e per la prima volta in vita sua... pienamente d'accordo con l'on. Giolitti» circa l'indipendenza dell'Albania, e, seguitando, nel proclamarsi continuatore del pensiero e della fede e della volontà di giustizia e di pace di Leonida Bissolati, ch'era scomparso da poche settimane, sostenesse «la necessità di un compromesso adriatico, fondamento del quale sono il riconoscimento del diritto italiano nella Venezia Giulia e sulle città di Fiume e di Zara, e il riconoscimento del diritto slavo in Dalmazia, la neutralizzazione dell'Adriatico, e garanzie bilaterali di equo trattamento per le minoranze slave e italiane», compromesso, che «accettato liberamente dalle due parti, impegni moralmente le due parti a non avvelenarsi a vicenda gli animi, incoraggiando i reciproci irredentismi».

E quando anche a lui, come ad altri, sembrò che il trattato di Rapallo, concluso, com'è noto, dal conte Sforza, fosse «la prima vera pace» fino allora «succeduta alla guerra mondiale», e fosse «un'opera di saggezza, non solamente perché concilia i diritti nazionali e i bisogni vitali dei due popoli adriatici, ma sopra tutto perché è il resultato di liberi accordi diretti» (discorso del 24 novembre 1920, pubblicato nell'Unità del 25), anch'egli, l'avversario del ministero Giolitti e particolarmente del capo del Governo, votò a favore.
Mi raccontava (mi par proprio che la memoria non m'inganni) Benedetto Croce, il quale fu, come tutti sanno, collega di Giolitti in quel ministero (e qui si può rammentare che verso il ministro dell'istruzione l'on. Salvemini, nel citato discorso del 2 luglio 1920, usava parole giustamente deferenti: né sia discaro il ricordo ai due uomini, oggi in aspro dissidio, che vecchi amici di entrambi vorrebbero augurar passeggero), mi raccontava, dico, Benedetto Croce, che Giovanni Giolitti, il quale soleva ascoltare attentamente i discorsi di Salvemini, gli osservava, alla fine d'uno di questi, che le cose importanti dette dal neo-deputato non destavano nella Camera tutto l'interesse che avrebbero meritato, perché egli non faceva parte di nessun gruppo organizzato.
Il Salvemini, infatti, che dapprima aveva aderito al gruppo parlamentare «di rinnovamento nazionale» (vedi Unità, 11 dicembre 1919), il quale voleva essere l'espressione dei combattenti, fin dal 7 febbraio 1920 si era dimesso irrevocabilmente dal gruppo stesso per un profondo dissenso nella valutazione del sonniniano patto di Londra (Unità, 12 febbraio). Com'egli scriveva nel suo giornale qualche mese appresso, a lui sembrava che quel gruppo, il quale s'intitolava del rinnovamento, non rinnovasse un bel niente, pei due programmi contradditori, che voleva, e non poteva, conciliare: «un programma antinazionalista per gli elettori, e un programma nazionalista per la Camera» (19 agosto). E, a distanza di soli due giorni, intervistato da un giornalista di Napoli, il quale — dopo un incidente provocato da analoghe dichiarazioni ch'egli aveva fatte al Congresso del Rinnovamento — gli chiedeva che cosa si proponesse di fare,

«farò —rispondeva—, quello che ho sempre fatto. Continuerò a rappresentare la volontà dei miei elettori, che coincide con le idee mie: se troverò altri deputati consenzienti nelle stesse idee, lavorerò in loro compagnia, in caso contrario, continuerò a rimanere selvaggio» (riprodotto dal Don Marzio, 21-22 agosto, nell'Unità, del 26).

Selvaggio, com'è noto, nel gergo usato, più che nel nostro, in altri Parlamenti, si chiamava un deputato che non appartenesse a nessun gruppo. Gaetano Salvemini era troppo convinto della fondatezza di tutte le sue idee per far causa comune con chi non le accettasse. Egli non poteva, pertanto, alla Camera e fuor della Camera, non far parte, quasi costantemente, per sé stesso, o, tutt'al più, con quei pochissimi, che aderissero al suo programma integrale ed ai suoi battaglieri propositi. Ma quando un «selvaggio», com'egli si compiacque di definirsi da sé, è un uomo d'indiscutibile ingegno e (anche se la passione gli faccia velo) d'indiscutibile buona fede, il pensiero e l'azione di un tale «selvaggio», oltre che rivelare un carattere, possono servire ad illuminare la vita politica dell'epoca, in cui un uomo di quel carattere, a malgrado o fors'anche a causa dei difetti inerenti alle sue grandi qualità, ha stampato una propria orma, inconfondibile ed incancellabile.
Alessandro Levi.

Dopo che questo scritto era già stampato, e mentre «Il Ponte» si accinge a pubblicarlo, arriva un opuscolo di Giuseppe Petraglione, che tratta il medesimo argomento: Una palestra di educazione politica «L'Unità» di Salvemini (Trani, Vecchi e C. ed-, 1945), raccogliendo, con «notevoli aggiunte e qualche ritocco», articoli apparsi nella Gazzetta del Mezzogiorno in agosto-settembre del 1944. Addito volentieri l'opuscolo ai lettori, i quali particolarmente s'interessino, sia della battagliera figura del Salvemini, sia della politica svòltasi nel decennio in cui visse l'Unità. Per parte mia traggo da tali pagine le notizie: che il giornale nacque da un convegno dell'ottobre 1911 nella tenuta di Gaudiano, di Giustino Fortunato, presso l'oraziano confine della Basilicata con la Puglia, convegno al quale, col Salvemini, parteciparono Gino Luzzatto e lo stesso Petraglione; che «il titolo, L'Unità, fu proposto dal Salvemini, in omaggio —egli scrive— al nostro ospite, che per lunghi anni aveva studiato la questione meridionale e combattuto per elevare le condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno al livello di quelle del Settentrione, perché fosse conseguita così l'effettiva unità della Patria»; che, infine, il sottotitolo «Problemi della vita italiana» fu aggiunto su proposta del Petraglione. Il quale racconta, altresì, di avere fornito al Salvemini materia per quella rubrica Frammenti della vita italiana, «che egli aveva iniziato nella Voce e poi trapiantato nell'Unità, per mettere in rilievo, con mordente ironia, spigolando nei giornali, nei discorsi e nelle azioni dei nostri uomini politici, le miserie, le goffaggini, le contraddizioni dei partiti che si contendevano il potere.
Alessandro Levi


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