L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 19 - 1 gennaio 1945

Bibl Anno XXXV (nuova serie) N. 19 Zurigo, 1 gennaio 1945 LIBERARE E FEDERARE . QUINDICINALE SOCIALISTA Redazione e A mm in i strazi on e: Casella postale No. 213, Zurigo 6; Conto postale No. VIII 26 305; Telefono: 3 70 87 Abbonamenti: 24 numeri Fr. 6.-, 12 numeri Fr. 3.-, una copia Cent. 30 Solidarietà fra popoli • I Oggi che la guerra è irrimediabilmente decisa, e alla vigilia del suo ultimo atto, sarebbe legittimo pensare che il mondo cominciasse a svestirsi degli co<li e delle passioni di parte, per considerare nella sua umana realtà il periodo storico che stiamo vivendo, e per gettare perciò le basi di una società europea e internazionale, ispirata a quei principi di solidarietà e di fratellanza, che tanti hanno in bocca, ma pochi hanno nel cuore. Invece pare proprio che la voce del buon senso debba rimanere inascoltata, e che il mondo voglia riprendere imperterrito la vecchia via, che l'ha condotto al presente disastro. vittoriose) lo spirito di comprensione e di solidarietà fra i popoli, questo è certo il popolo italiano, il quale solo in questa maniera potrebbe far rivivere quelli, tra i motivi del nostro risorgimento, che sono veramente eterni e vitali. Evidentemente gli animi, nei quali non è penetrato lo spirito del socialismo, non sanno vincere quel complesso di sentimenti, che fanno velo alla chiara comprensione della concreta fratellanza <:lei_popoli: e questo accade tra gli italiani, come accade in tutto il resto del mondo. Per quanti sforzi facciano, i signori dell'altra sponda, della sponda cioè antisocialista, ragionano sempre in termini di equilibrio di potenze, cli compensi territoriali, di conti da saldare; e se arrivano putacaso a parlare di federalismo, ne parlano in termini tali da far perdere ogni speranza. Non vedono con gli occhi dell'anima la comunità delle nazioni europee (non parliamo poi della comunità internazionale dei popoli!), perché per essi, in fondo, i popoli non sono rappresentati da quei milioni e milioni di umili lavoratori, che ovunque hanno sempre amato ed amano la pace, e che, se per un attimo, in qualche parte di questo martoriato continente, hanno per caso voluto la guerra, furono a ciò trascinati dallo stato di disperazione, nel quale vennero gettati dalla miope ed egoistica politica delle classi dirigenti del mondo cosidetto borghese. Per questi signori i popoli sono rappresentati dalle cricche politiche e dai borghesi benpensanti (e non parliamo dei grossi capitalisti, perché oggi di essi, almeno a parole, nessuno vuol più saperne), i quali hanno fino ad oggi contribuito a fabbricare i miti, in nome dei quali la gioventù di tanti paesi è corsa incontro alla morte. Solo il socialismo ha oggi la forza di esprimere ideali, che possono impedire l'affermazione di quei sentimenti di gretto ed egoistico particolarismo, di diffidenza, di vendetta, i quali minacciano di condurre a nuovi disastri il mondo di doman_i. Se esso non dovesse giungere a cogliere una diretta, od almeno indiretta vittoria, v'è da temere che da un remoto angolo della Patagonia o più probabilmente dalla bolgia infernale dei «seminatòr di scandali e di scismi» lo scrittore del «Tempo del Bastone e della Carota» e il suo inseparabile amico e protettore potrebbero domani sorridere mefistofelicamente, considerandosi i veri vincitori dell'immane guerra, perché l'odio, l'implacabile odio, dalle loro bocche cosi fervidamente predicato ed esaltato, avrebbe trionfato sulle rovine del mondo, da essi tragicamente perduto. pre. gi. Il catoniano «Carthaginem esse delendam» sta diventando il motto degli uomini politici di quasi tutto il mondo e dei loro fidi gazzettieri, nonché dei cosidetti borghesi benpensanti, che si abbeverano alle fonti della loro ... saggezza. Pare che il problema capitale di domani risieda nell'imporre la più dura e più umiliante camicia di forza al popolo tedesco, nel castigare in esso il «lupo cattivo», che avrebbe scatenato, per la sua indole prava, tutte le guerre della storia moderna, nello svirilizzarlo per il più lungo tempo possibile. I milioni e milioni di operai e contadini tedeschi, sbattuti da una parte all'altra del mondo a combattere senza tregua in una guerra senza speranza, sarebbero dei colpevoli appartenenti alla razza reietta, condannati proprio dai grassi borghesi di altre nazioni, i quali, con il loro egoismo particolaristico, hanno contribuito a creare in Germania le condizioni, che hanno reso possibile l'avvento al potere del partito della croce uncinata. In questa sagra di vendetta e di disumana cecità, ecco che oggi vediamo le vecchie destre francesi filo-fasciste, camuffatesi ad Algeri sotto panni progressisti, chiedere il confine del Reno, dando prova di una mancanza di pudore, che non vorremmo altrimenti definire, mentre ad oriente si parla e si riparla di analoghe mutilazioni della Germania. N eoantif ascismo Quello che però fa più specie è che anche in ambienti italiani si ragioni nei riguardi dei tedeschi presso a poco con lo stesso spirito, come se neppure vent'anni di dominazione fascista fossero riusciti a far comprendere a certi uomini la tragedia di un popolo, piegato da una dittatura, che, affermatasi più tardi della nostra, ha però voluto e saputo stringere i freni con ben altra intensità. Fa specie sentir disturbare nei loro sepolcri Manzoni, Berchet o Giusti, e rispolverare il formulario quarantottesco, deturpandone con ciò la nobile poesia, per parlare ancora di «secolare nemico», di «rea progenie degli oppressòr» e di altre consimili cose. Se lo scopo fosse per caso quello di spronare alla lotta i patrioti delle montagne e delle città italiane, possiamo assicurare che si può fare perno su accenti ben più vitali. Non ricominciamo proprio noi a scagliare le freccie contro le nazioni, anziché contro i dirigenti, che le hanno tradite! Se ci si mette sulla china della classificazione dei popoli in buoni e cattivi, in responsabili e vittime, non varrà poi molto affermare, come fanno questi signori, che il popolo italiano non ha mai approvato il fascismo, e perciò non è né «cattivo:i> né «responsabile», a differenza di un altro popolo, che avendo approvato ( !) il proprio fascismo, dovrebbe invece ritenersi «cattivo> e perciò uesponsabile:i>. Queste sottili distinzioni - non illudiamoci - sono destinate a ottenere poco successo presso coloro, che hanno oggi in mano i destini dei popoli vinti; e non è affatto azzardato pensare che essi applicheranno gli stessi principi generali nei riguardi di tutte le nazioni soccombenti, salvo a tener magari qualche conto in ultimissima istanza, per temperare alcuna della clausole più dure, del contributo di sangue dato dai partigiani e da quelle poche forze regolari, cui è stato concesso di combattere. Se vi è un popolo pertanto, che in questo momento dovrebbe più di ogni altro sent;.re il bisogno di dare il meglio di sé stesso, per far trionfare nell'opinione pubblica mondiale (opinione pubblica che non potrà non esercitare la ropria influenz ui governi delL nazioni Ogni classe sociale sceglie una determinata forma ideologica e politica per difendere i propri privilegi economici. Quando tale forma è bocciata dalla storia se ne sceglie un'altra ritenuta più idonea a difendere gli stessi privilegi. Le forme difensive cambiano come i vestiti, le mutande e le camice: i privilegi rimangono un punto costante come il corpo nudo di chi cambia gli abiti. Quando la dittatura di De Rivera e la monarchia spagnuola non si rivelarono più atte a difendere gli interessi dei grandi proprietari terrieri, questi sperarono in una temperata democrazia cattolica che frenasse o deviasse l'impeto riformatore delle classi proletarie. Quando il fascismo, che per un ventennio era stato la vigile e prezzolata sentinella del capitalismo italiano, fu demolito dalla storia, gli industriali ed i latifondisti iniziarono la ricerca di una nuova forma ideologica e politica atta a sostituire lo scudo infranto. E' sorta cosi una nuova forma di neoantifascismo, che vide in Badoglio la prima àncora di salvezza, che continua una difesa metodica e tenace della monarchia, ~he cerca delle nuove posizioni difensive nel partito liberale e cattolico. Badoglio, il salvagerarchi, è scomparso dalla scena, ma numerose sono state le forze in opera per ostacolare l'epurazione dell'apparato burocratico. Un'altra aspirazione dei latifondisti italiani è il prolungamento dell'occupazione straniera in cui vedono una causa di ritardo nell'applicazione di quelle riforme agrarie che verrebbero imposte in clima di libertà nazionale ed autonomia di popolo. Accanto al fatto nudo e prosaico, accanto alla naturale autodifesa d'una classe che non vuole perdere i propri privilegi, corre parallelo il carnevalesco tumulto delle nuove frasi, degli episodi e dei variopinti trasformismi alla Fregoli ! All'estero dei consoli diventano giacobini, delle pricipesse tesserate campioni dell'Italia libera; dei famosi direttori di giornali fascisti si fanno portavoce dell'eroico spirito partigiano: dei generali monarchici organizzano delle brigate dell'ordine in nome della libertà. Se Ovidio fosse vissuto nella nostra epoca avrebbe scritto in trenta e non in quindici libri le sue Metamorfosi e l'abbondanza dei soggetti a sua disposizione sarebbe stata tale che non sarebbe andato a scegliere proprio l'amico di Ulisse per trasformare gli uomini in maiali. In mezzo a questo tumulto da circo equestre in cui si incrociano nell'aria i salti mortali dei pagliacci, nel frastuono orchestrale di questo neoantifascismo da operetta, noi conserviamo la nostra chiarezza e sorvolando le numerose ed umoristiche piroette individuali, ricerchiamo (.,Q il metodico e freddo trasformismo di classe, il nuovo apparato ideologico ed organizzativo con cui le classi reazionarie italiane vogliono continuare la loro lotta. I francesi dicono: Cherchez la femme, e noi diciamo : Cercate la banca, il latifondo, i privilegi di quelli che per un ventennio hanno sostenuto il fascismo. Per noi sotto i variopinti mantelli od i ricami di chiacchiere, per adoperare una frase d'una vecchia canzone napoletana, esiste la realtà triste della campagna italiana con i suoi milioni di contadini di cui si cerca di prolungare la povertà ed il dolore; per noi esiste il proletariato della fabbrica di cui si cerca di ritardare l'ascesa, un medio ceto rovinato dalla guerra che si vorrebbe neutralizzare ed ingannare con una nuova demagogia liberaloide, progressista nella parola e conservatrice nel fatto. Compito umano e politico del socialismo è quello di creare nella storia una solida libertà spirituale e civica che rimarrebbe un sogno accademico se non si colpissero i privilegi economici di quelle classi che hanno sostenuto il fascismo e che con gli stessi privilegi ne creerebbero un secondo. Accanto ai piani di riforma agraria che i tre partiti d'avanguardia si ripromettono d'applicare nella prima ora politica favorevole, esistono altri problemi vitali: un'equa, ma ferma epurazione dell'apparato statale: il diritto di autodecisione del popolo italiano e dei suoi rappresentanti: l'eliminazione definitiva dell'istituto monarchico. La Monarchia italiana è stata elemento decisivo e determinante d'un ventennio di fascismo e non esiste né comunione, né confessione, né umana retorica, né raffinatezza sofistica che possa sottrarla alla condanna del popolo. La Monarchia, che ora si nasconde sotto il mantello progressista, non sarà mai né un simbolo d'unità, né un innocente elemento decorativo nella vita nazionale italiana; ma un centro d'attrazione e di reclutamento di tutte le forze reazionarie che un giorno potrebbero ordire un secondo attentato alle libertà popolari. Nel periodo che ora attraversa l'Italia, la Monarchia sfrutta abilmente tutte le anomalie della situazione, utilizza ogni addentellato ininterno e straniero, e mostra raffinatezza e tenacia nella ricerca del compromesso e del mascheramento. Il popolo attende una grande fermezza ed una grande intransigenza da parte delle élites politiche che ora combattono per un'Italia libera. Il sapiente fischio con cui l'operaio romano accoglieva il passaggio del cocchio reale può essere tradotto in parole: può essere tradotto nelle parole care agli eroi del risorgimento: «Va fuori d'Italia, va fuori ch'è ora!> Val Dè-vero 16 ottobre 1944 E il tuo fucile sopra l'erba del pascolo Qui noi siamo giunti Siamo gli ultimi noi Questo silenzio che cosa Verranno ora Verranno E il tuo fucile nell'acqua della fontana Ottobre 11ento amaro Ohi parlt>rà per noi Come siamo lontani Verranno ora Verranno Inverno ultimo anno Le mani cieche la fronte E nessun grido più E il tuo fucile sotto la pietra di neve Verranno ora Verranno F.F. ProspettivdaelDopo-Fascismo Diamo qui alcuni appunti della relazione politica fatta dal comp. Silane al convegno della federazione. Il dopo-fascismo si annuncia già come un'epo• ca note, olmente diversa dal pre-fascismo. Noi socialisti dobbiamo dunque stare attenti a non affrontare con mentalità pre-fascista i problemi nuovi che ci aspettano. Subito dopo la marcia fascista su Roma nell'autunno del 1922, un giornalista americano visitò il card. Gasparri, segretario di stato della Santa Sede, e gli chiese un prognostico sulla probabile durata del nuovo regime. Con la prudenza propria dei veri profeti il cardinale rispose: «Può durare due anni, ma ne può durare anche duecento.» Il giornalista cercò di saperne di più: »E dopo? chiese. Dopo i due anni o dopo i duecento anni, Eminenza, chi raccoglierà la successione?» «In ogni caso, Giolitti», rispose senza esitare il segretario di stato. Quella risposta fu evidentemente qualcosa di più di una semplice battuta di spirito: in forma paradossale fu piuttosto l'espressione del vecchio scetticismo cattolico romano sui casi del mondo, congiunto ad un evidente disprezzo per la capacità politica degli italiani. Se quella triste profezia del cardinale dovesse avverarsi, ciò significherebbe non soltanto che i mulini del Signore macinano lentamente: ciò significherebbe addirittura che quei mulini non macinano più: le vicende storiche non sarebbero che strati successi vi di tele di ragno su mole immobili. E all'aspetto odioso del fascismo che già' conoscia- _ mo, alle sue innumerevoli infamie, alla sua crudeltà, alla sua immoralità, alla sua falsità, si aggiungerebbe un tratto ancora più terrificante: l'inutilità. In realtà il pessimismo di sua eminenza era ingiustificato: Giolitti era politicamente già un morto nel 1919; già nel 1919 egli era un residuo del 1914; nell'Italia sconvolta e profondamente trasformata dalla prima guerra mondiale, egli era il rappresentante di un'epoca crepuscolare. Le sue «Memorie» contengono la dimostrazione esauriente ch'egli capi poco della guerra e della crisi che ne segui. La tragedia del socialismo italiano nel 1919 risultò anch'essa dal fatto che i suoi uomini più qualificati erano pure essi superstiti dell'epoca antidiluviana del 1900 a 1914 e che i quadri periferici del partito erano costituiti per lo più da ottimi operai i quali durante la guerra erano stati esonerati dal servizio militare. Al tentativo di Maffi, Pilati ed altri, di costituire una lega proletaria dei reduci di guerra, non si prestò allora l'attenzione dovuta; i consigli di fabbrica ideati da Gramsci in modo, tra l'altro, da inglobare la totalità della maestranza e da unire gli operai qualificati ai manovali, i vecchi ai giovani, i «torinesi» ai «provinciali», suscitò la diffidenza dei sindacati; infine, il movimento autonomista dei combattenti e contadini sardi fu considerato una semplice manovra elettorale. Questi tre episodi furono gli sforzi più notevoli per convogliare in una politica progressista l'attivismo minaccioso del 1919. I tre episodi si svolsero ai margini del socialismo ufficiale. L'ostilità che li condannò all'insuccesso e certamente non determinò ma favori il fascismo, nacque dalla nostra incomprensione dei fatti e problemi nuovi che davano alla società italiana del 1919 un volto notevolmente modificato rispetto a quello del 1914. Ora, il 1945 si annuncia anch'esso come l'inizio di un)epoca per vari aspetti diversa dal prefascismo, e noi socialisti dobbiamo stare bene attenti a non ripetere gli spropositi di allora. Dobbiamo cercare di tenere gli occhi aperti, di capire, di renderci conto a tempo dei fatti e dei problemi nuovi, se non vogliamo, come allora, subire la sorte di ciechi condottieri di ciechi. «Se un cieco ne guida un altro, ambedue cadono nella fossa.» AVVISO L'Amministrazione del giornale avverte gli abbonati ecl i lettori che pu,rtroppo non è stato possibile superare le difficoltà che l'hanno costretta ad interrompere la pubblicazione del giornale, che essa persegue però sempre lo scopo di reprenderla. L'Amministrazione.

Federazione europea e monopoli industriali Esaminando i problemi economico-politici dell'unità europea sorge spontanea la domanda: quali possibilità di crearsi, affermarsi e dominare avrebbero i monopoli industrialifinanziari in un'Europa federata? Quale peso essi potrebbero esercitare sul governo federale e sui singoli governi nazionali? Come l'uno e gli altri potrebbero o dovrebbero reagire? Le risposte non sono facili, ma qualche ipotesi si può azzardare. Sembra logico supporre che la formula «un unico mercato europeo, un'unica moneta europea» dovrebbe favorire le concentrazioni industriali sia verticali, trusts, sia orizzontali, cartelli. La possibilità di ridurre i costi di produzione attraverso la razionalizzazione e la specializzazione della produzione si estenderebbe dal campo tecnico e geografico nazionale a quello geografico europeo. Come è noto la migliore distribuzione e coordinazione delle unità produttrici si raggiunge appunto attraverso i trusts che sono in grado di seguire la produzione dalle fonti delle materie prime alle successive trasformazioni fino ai mercati di consumo o di impiego. E' da prevedere perciò che l'aumento dei trusts in Europa avverrebbe in funzione ed in proporzione della razionalizzazione e della specializzazione geografico-europea della produzione. Aumento notevoli~simo quando si pensi a quale irrazionale anb-eco- • nomica distribuzione geografica dell'industria in Europa hanno condotto le autarchie e le guerre. Contemporaneamente al processo di razionalizzazione tecnico-geografico i trusts stessi cercherebbero di accordarsi per regolare il volume della loro produzione in funzione del maggior profitto; essi assumerebbero cosi anche l'aspetto di cartelli. I grandi organismi economici hanno sempre dimostrato una spiccata capacità di sfruttare le più varie situazioni e condizioni politiche nazionali ed internazionali. Non sembra: quindi fuori luogo affermare che con l'avvento della Federazione europea si verificherebbe su ben più vasta scala una situazione analoga a quella che si verificò, in fatto di monopoli industriali, all'epoca della Conferenza di Locarno. In quegli an:p.i, oltre all'abbraccio fra Briand e Stresemann si ebbero molti altri abbracci fra quegli industriali che fino a pochi anni prima avevano fornito i mezzi coi quali i vari popoli si erano reciprocamente massacrati. Questi abbracci si chiamarono trusts e cartelli europei e si concretarono o cercarono di concretarsi in un aumento di dividendi per le aziende cosi associate. Al sorgere ed al consolidarsi nell'immediato dopoguerra di molti monopoli industriali nazionali fece seguito verso il 1926/27 la creazione di una serie di intese e monopoli europei. Basti ricordare quelli dell'acciaio (1926), della potassa (1926), dell'alluminio (1926), del rame (1926), della seta artificiale (1927), dei concimi superfosfatici (1926), di numerosi prodotti chimici (1928), delle rotaie (1926), dei tubi (1926), degli articoli smaltati (1926), delle lampadine (1924), dei pneumatici (1926), della colla (1926), ecc. ecc. - Altre situazioni di congiuntura faciliterebbero il sorgere di monopoli industriali europei nel momento più favorevole per la creazione della Federazione europea, quello cioè che seguirà alla fine delle ostilità. E' cosa nota che la formazione dei monopoli internazionali ha come presupposto necessario quello dell'esistenza di monopoli nazionali. Nel periodo che precedette questa guerra, durante la guerra stessa abbiàmo assistito in tutti i paesi al formarsi di concentrazioni monopolistiche nazionali su scala di gran lunga più vasta che durante la guerra 1914/18. Ed in proposito si ricordi che nel 1918 si contavano nella sola Inghilterra più di 500 importanti cartelli od accordi similari di recente formazione. I monopoli nazionali che l'attuale guerra ha ovunque aumentato sarebbero solide fondamenta su cui verrebbero costruiti, in un'Europa federata, monopoli europei. Non è neppure da escludere che le nazioni vincitrici cerchino di consolidare nel dopoguerra le posizioni di preminenza raggiunte dalle loro industrie, dominando finanziariamente quelle dei paesi vinti o devastati dal conflitto~ Le forme monopolistiche sarebbero lo strumento più adatto per la realizzazione di un tale programma. Certo in questo caso si passerebbe da monopoli europei a monopoli mondiali sul tipo di quello prebellico delle lampade ad incandescenza. Un indice di una tale politica si potrebbe forse intravedere nel costituendo monopolio mondiale dei petroli di cui ha parlato la stampa svizzera. Anche la mancanza di circolante sano e stabile di cui,· con ogni probabilità, soffriranno i paesi d'Europa, specie quelli vinti od invasi, all'indomani della guerra, favorirà il sorgere di trusts in Europa. Queste forme di concen- .trazioni verticali, come acutamente ha osservato il Dagnino, «hanno il vantaggio di esigere per il loro funzionamento una minore quantità di capitale finanziario e permettono l'eliminazione di molti rischi di congiuntura che si hanno nel passaggio del prodotto attraverso le varie fasi di lavorazione quando queste vengano compiute fra aziende fra loro indipendenti. L'ammortamento del rischio all'interno della azienda è elemento indispensabile di riuscita nei periodi in cui i prezzi subiscano continue variazioni.» Questa teoria ha trovato piena conferma nei concentramenti verificatisi nell'industria tedesca nel dopoguerra; ciò si rileva anche da un discorso di Stinnes, tenuto nel novembre del 1922 davanti al Reichstag. Concludendo queste previsioni sui monopoli nell'ormai non lontano dopoguerra e cercando di guardare dal punto di vista dell'argomento che stiamo trattando al momento storico-economico che viviamo e sopratutto a quello a cui andiamo incontro, ci viene spontaneo chiederci se essi non rappresentino l'avverarsi di quell'epoca economica che nel 1928 il Dagnino cosi prospettava: «Mentre le forze imperialiste vogliono ancora risolvare la situazione attraverso la conquista di nuovi mercati, mentre le forze socialiste vogliono risolverla attraverso un aumento dei salari reali, mentre le forze religiose e spirituali condannano la meccanizzazione crescente e propugnano un ritorno alla Terra, la plutocrazia europea tenta la stabilizzazione del suo potere e delle sue influenze attraverso le intese industriali ed i patti diplomatici di marca ginevrina. Siamo al vertice del capitalismo industriale, siamo nella fase dell'autocontrollo.» Se il sorgere di una Federazione europea coincide con questa fase di autocontrollo od anche soltanto con circostanze particolarmente favorevoli al sorgere di monopoli industriofinanziari europei, e, come abbiamo visto, questa supposizione sembra non sia da escludere, non è difficile prevedere quale influenza essi potrebbero esercitare sulla federazione. Su scala europea si potrebbe ripetere quanto è fino ad oggi avvenuto anche negli stati retti da costituzioni democratiche. L'influenza notevolissima che ebbe nella politica francese il «Comité des forges» e quella del partito degli industriali tedeschi, la Volkspartei, nella Germania di Weimar, sono esempi da non dimenticare. Fortunatamente la nuova democrazia europea ed in genere quei partiti di sinistra che dovrebbero essere l'anima ed il presidio della Europa federata hanno già esplicitamente affermato di rendersi conto di quale pericolo rappresenterebbero domani le coalizioni monopolistiche per la democrazia europea e per gli istituti che su di essa dovessero basarsi o da essa derivare. Uomini come De Gaulle, André Philippe, Benes, Lasky sono, per recenti affermazioni, nello stesso ordine di idee del labour party il quale afferma che «finché le cittadelle dei monopoli non saranno state occupate i popoli non disporranno di alcun potere per determinare il loro avvenire». Tenendo conto di questa precisa posizione delle forze progressiste vien naturale di chiedersi: con quali provvedimenti legislativi si potrebbe eliminare il pericolo che il monopolio economico prevalesse sulla democrazia, prevalesse cioè nella federazione e sulla federazione europea? E questi provvedimenti legislativi potrebbero rimanere di competenza dei singoli stati o dovrebbero essere di competenza della ·federazione? Non ci sembra, a quanto ci è dato di sapere, che il problema - a parte gli studi del Robbins - sia stato trattato in ragione della sua importanza. Non intendiamo farlo qui, che ci limiteren;.o ad accennare ad alcuni aspetti del problema che potrebbero divenire oggetti di discussione. Per cercare di rispondere realisticamente alla prima domanda che ci siamo posti è necessario richiamarsi ai provvedimenti anti-trust presi negli ultimi decenni da vari stati inEuropa edin America. Vi furono leggi intese a proibire il formarsi dei monopoli, altre che li misero sotto la sorveglianza dello stato, altre ancora che cercarono di porre dei calmieri ai prezzi delle merci prodotte dai monopoli. In certi casi lo stato cercò di rompere i monopoli creando, direttamente od indirettamente, dei gruppi ad essi concorrenti. Si può però affermare che in generale questi provvedimenti non raggiunsero gli scopi che si proponevano. Non esamineremo qui le cause del fallimento della politica antitrust1. Aggiungiamo però che, procedendo per eliminazione di rimedi dimostratisi inefficenti, molte correnti anche non socialiste in Italia e fuori convengono che la soluzione del problema dei monopoli industriali-finanziari si può raggiungere soltanto con la socializzazione o la nazionalizzazione dei monopoli stessi. Alle medesime conclusioni cui si è giunti per le leggi anti-trust di carattere nazionale, si perviene induttivamente quando si trasporti il problema su di un piano europeo. Ciò perché le ragioni dell'inefficenza di queste leggi risiedono nell'impossibilità pratica e tecnica di applicarle. Quindi è da prevedere che anche in un'Europa federata l'unica difesa contro i monopoli consisterebbe nel sottrarne la proprietà al capitale privato. Pure alla luce di un rapido esame non sembra che provvedimenti di nazionalizzazione o di socializzazione nei confronti di monopoli nazionali dipendenti o legati a monopoli europei potrebbero essere presi, ed anche se presi, essere efficaci, se ciò rimanesse di competenza dei singoli stati federati. Se uno stato della federazione procedesse alla socializzazione di un monopolio industriale 1 In proposito v. <Cenni e considerazioni sui monopoli industriali> - Utinam - Ed. Partito Socialista Svizzero. Biblioteca Gino 1anco nazionale aderente ad un'intesa europea od alla socializzazione sul suo territorio di organismi industriali dipendenti da un monopolio europeo è facile prevedere la reazione che proverrebbe dal monopolio rimasto, negli altri stati, in mano al capitale privato. Esso, per evitare di perdere la possibilità di imporre al mercato i suoi prezzi formati in funzione del massimo profitto, per evitare l'estendersi dei provvedimenti di socializzazione, ricorrerebbe a tutte le sue possibilità politiche, finanziarie, commerciali: soppressione del credito privato all'industria socializzata, vendite sotto costo nel mercato interno, dumping sugli eventuali mercati d'esportazione, campagne di s_tampa, ecc., ecc. Potrebbe un singolo governo di una nazione europea, senza ricorreré ad inamissibili barriere doganali, riuscire vittorioso in una simile lotta contro una coalizione industriale-finanziaria in piena efficenza in tutti gli altri stati d'Europa? Sembra più che naturale dubitarne fortemente. Ci pare quindi, guardando al problema in tutta la sua ampiezza e sulla scorta degli elementi di fatti cui si è accennato, che non sarebbe possibile affrontare vittoriosamente il compito della socializzazione dei gruppi monopolistici europei se rion su scala europea e da parte di un unico potere supernazionale quale il governo di una federazione europea. In relazione a questo nostro punto di vista, val la pena di ricordare che gia m passato, sotto l'egida della Società delle Nazioni, si tentarono di stabilire norme internazionali per regolare l'attività internazionale dei trusts. Ma ogni proposta fallì urtando contro la sovranità dei singoli stati. Infatti leggiamo nella risoluzione votata dalla Commissione per l'industria alla Conferenza économica internazionale riunitasi a Ginevra nel 1927 per iniziativa della Società delle Nazioni che: «La Conferenza ha riconosciuto che per ciò che riguarda le intese limitate ai produttori di un solo paese, appartiene ad ogni governo di regolare come gli conviene il loro funzionamento. Quanto alle intese internazionali è stato generalmente constatato che l'istituzione di una giurisdizione internazionale è impossibile di fronte alle divergenze esistenti tra le misure che i diversi stati hanno creduto di prendere al riguardo ed a causa delle obiezioni di ordine nazionale e costituzionale che il principio di tale istituzione suggerirebbe a numerosi stati.» Certo che la soluzione che,attraverso l'esame di qualche dato di fatto, abbiamo qui prospettata complica ulteriormente il problema della federazione europea. Ma il problema non può essere trascurato o peggio ignorato. Ignorarlo potrebbe rappresentare il pericolo di avviarsi ad una federazione ~uropea dominata dalle coalizioni finanziarie-industriali europee. Non avremmo certo in tal caso una federazione democratica. Utinam. Gliillizidelmovimenotoperaioitalianoin Svizzera CHIARIFICAZIONE Nel frattempo i compagni dell'Unione Socialista riprendevano la discussione sul problema, su quale base bisognaya impostare l'azione per raggiungere lo scopo prefisso. Una chiarificazione si era resa tanto più necessaria, in quanto l'Unione Sindacale Svizzera aveva deciso di rivedere; al suo congresso che doveva avere luogo nel 1900, gli statuti e sopprimere la dichiarazione di fede socialista in essi contenuta, il che non avrebbe più permesso all'Unione Socialista di fare parte di essa. L'esperienza aveva dimostrato che all'organizzazione degli immigrati italiani in Svizzera si opponevano difficoltà assai maggiori che non a quella degli operai residenti in Italia. Non era l'operaio specializzato, istruito, che emigrava in Svizzera, ma una massa incolta, proveniente per lo più dalla campagna, dove aveva vissuto sotto l'influsso del prete, dove non aveva potuto formarsi una vera esperienza di lotta politica ed· economica, sindacale, ampliare il proprio orizzonte e super-are il ristretto egoismo personale; essa non conosceva spesso neppure di nome l'organizzazione e ignorava il con<:etto della solidarietà sul quale quella si fonda. A questi lati negativi, nei rispetti dell'organizzazione, si aggiungeva, nella categoria professionale più importante, l'edile, la mobilità. «L'italiano ha in Svizzera una posizione precaria. Vinta oggi una battaglia a ·Berna, domani sarà forse costretto ad accettare. patti umilianti nell'Oberland o nel Ticino. Egli non sa se negli anni seguenti prenderà ancora la via della Svizzera o della Russia, o se si accontenterà di digiunare ad intervalli nella dolce patria.» (Vergnanini.) La mobilità dell'immigrante non permetteva che raramente agli organizzatori di influenzare sistematicamente per un periodo di tempo un po' lungo le medesime persone, unico metodo atto a formare una base di convinti e fedeli compagni. L'Unione Socialista poteva fare assegnamento solo sulla collaborazione degli immigrati stessi; mancava quella dell'elemento ,intellettuale, che un cosi grande contributo ha dato nei diversi paesi al movimento operaio ai suoi inizi. «La massa emigrante è nella sua massima parte ineducata alla vita politica; quindi, mentre in Italia abbiamo nei nostri circoli un elemento di studenti, operai colti e capaci, qui troviamo delle sezioni che sono costrette a vivere poveramente per la assoluta incapacità dei soci. (Vergnanini.) I criteri direttivi per l'azione socialista, quali essi venivano praticati nei paesi dell'Europa occidentale, e secondo i quali a) le organizzazioni sindacali dovevano organizzare la resistenza sul terreno economico, b) il partito la conquista dei poteri pubblici, non potevano evidentemente essere senz'altro applicati nel nostro caso. Gli immigranti si trovavano in una situazione intermedia: dovevano essi venire influenzati in rapporto al loro soggiorno in Italia, dato che vi potevano esercitare i diritti politici, e doveva quindi avere la propaganda un carattere politico? Oppure si doveva tenere conto solo del loro soggiorno in Svizzera e svolgere quindi una propaganda prevalentemente economica, in favore delle organizzazioni sindacali? L'esperien,za aveva dimostrato che gli inizianti del movimento avevano avuto ragione dando la preferenza all'azione sindacale. «In Italia la propaganda, fatta attivamente, dove più dove meno, frutta sempre qualche cosa. Si fonda il primo nucleo, poi, ove non manchi l'attività e l'energia dei pochi, il nucleo mano a mano s'aggrandisce, diventa forte, fà i muscoli e la carne nella battaglia quotidiana diretta contro il diretto nemico. Le elezioni politiche e amministrative, la partecipazione attiva alla vita pubblica, sviluppano l'energia dei compagni, ne destano l'entusiasmo, ne rendono agili e destre le forze: non manca il s~ccesso, piccolo in principio se vuolsi, ma che è sprone a successi maggiori.» (Serrati, Avvenire del Lavoratore, 1902, Nr. 132.) In Svizzera mancavano tutte le premesse per una azione politica degli immigrati italiani. Uno statuto, ela:borato da A. Cabrini e integrato da una serie di proposte di F. Cafassi, deduceva le necessarie conseguenze e fu. approvato a grande maggioranza al congresso di Zurigo dell'Unione-Socialista (19, 20, 21 maggio 1900). L'Unione Socialista usciva dall'Unione dei sindacati svizzeri e si separava completamen te dalle organizzazioni sindacali, che dovevano aderire a quella. L'Unione Socialista continuava ad esistere come organizzazione, aderiva però al Partito Socialista Italiano e cambiava il proprio nome in quello di «Federazione dei socialisti italiani in Svizzera - Partito Socialista Italiano». Compito principale della Federazione era quello di accostare le masse degli immigrati, sospingerle nelle organizzazioni di arti e mestieri e sviluppare nella coscienza degli immigrati stessi i germi depostivi dall'azione economica sino a formare dei socialisti; la Federazione doveva pertanto aiutare tutte quelle iniziative che ~vrebbe giudicato vantaggiose all'organizzazione degli emigranti, mettendosi anche alla testa delle medesime (segretariati d'emigrazione, ufficio di informazione, ecc.). Anche Vergnanini aveva rielaborato le proprie esperienze di cinque anni e presentò al congresso un suo nuovo programma. Egli respingeva ora recisamente l'azione politica, e l'azione economica non doveva limitarsi alla lotta di classe tra padroni e operai, ma doveva essere integrata da tutta una serie di istituzioni, come da un segretariato operaio a Berna, da cooperative di consumo e di lavoro, cucine e alberghi popolari, organismi culturali, che dovevano offrire agli operai dei vantaggi immediati ed elevare il loro tenore di vita. Per raggiungere questo scopo, le sezioni sindacali avrebbero dovuto federarsi a parte e costituire, insieme alle associazioni che accettavano quel programma, una «Unione operaia di lingua italiana». Le sezioni sindacali italiane dovevano naturalmente continuare a far parte dell'Unione sindacale svizzera e federarsi a parte solo per quanto riguardava la realizzazione di quello speciale programma. Un scettiscismo generale accolse il nuovo programma di Vergnanini, tuttavia il congresso lo approvò, affidando al suo ideatore l'incarico di provvedere alla realizzazione. Il ritorno di Vergnanini in Italia gli impedi anche solo di iniziare i lavori, esperienze cooperative posteriori hanno però dimostrato che quelle idee erano premature. Il congresso di Zurigo del 1900 dell'Unione Socialista chiude il primo periodo della nostra storia. Non crediamo di essere venuti meno al dovere dell'obbietività, ponendo al primo piano della narrazione il movimente socialista a scapito di quello anarchico e di quello sindacale. 11movimento anarchico, che fu stroncato con l'espulsione dei suoi principali esponenti 'dall'~zione ~oliziesca dopo l'assassinio dell'~peratr1ce Ehsabetta, si mostrò, nel suo dottrinarismo estremista, assolutamente incapace di recare un contributo positivo alla soluzione dei problemi concreti dell'immigrazione. Nel movimento sindacale, edile, furono compiuti sforzi not~voli p~r diffondere e rinforzare l'organizzazione, Sl fondarono nuove sezioni e si creò nel 1896 una federazione delle stesse che tenne . . , v~n congressi. Pure anche questo movimento s1 scontrava come l'Unione Socialista a delle gravi difficoltà, di cui però non si comprendeva ancora bene la natura che quindi non so potevano eliminare. E. Valar. Fine Redattore:ERICH VALAR ZURIBO Druck:OENOSSENSCHAFTSDRU 1CKEREI ZORICH

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==