L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 4 - 25 febbraio 1944

Anno XXXV (nuova serie) N. 4 Zurigo, 25 Febbraio 1944 LIBERARE E FEDERARE! QUINDICINALE SOCIALISTA Redaz I one e Ammin i strazi on e: CasellapostaleNo.213,Zurigo6; ContopostaleNo.VIII 26305; Tel. 3 7087 - Abbonamenti: 24 numeriFr. 6.-, 12 numeri f r. 3.-, unacopiaCent.30 Pensiesriullarivoluziodnellanostreapoca Nel suo libro più recente «Reflections on the Revolution of our Time» (Allen and Unwin, London, 1943) il compagno Laski si occupa ampiamente del fascismo che considera anche lui come una forma disperata del capitalismo in decadenza e constata la presenza di germi fascisti negli stessi paesi democratici. Le classi dirigenti delle grandi democrazie sono dominate dalla paura degli inevitabili cambiamenti sociali. Quale sarà il loro atteggiamento quando saranno poste davanti al dilemma della rinunzia ai propri privilegi o della rinunzia alla democrazia? Tra le parti più istruttive del libro è la documentazione dell'aiuto fornito dalle grandi democrazie al fascismo italiano e al nazional-socialismo tedesco fino al 1938. I filofascisti inglesi e americani sono tutt'altro che scomparsi o convertiti. La loro influenza sulla politica democratica è un ostacolo alla stessa vittoria militare. Laski addita questo pPricolo ai suoi connazionali e li incorraggia. ad. affrontare con risolutezza i problemi 11npellenti della socializzazione. Il pensiero del compagno Laski apparirà tanto più sintomatico se si riflette ch'egli è attualmente uno dei capi del partito laburista. Traduciamo dal suo libro una parte del capitolo conclusivo. Noi siamo in pieno nella crisi più profonda che la nostra civiltà abbia conosciuta dalla Riforma in poi, e forse dalla caduta dell'Impero Romano. E' molto probabile che dalla nostra capacità di comprendere questa crisi e di agire in conseguenza dipendano la pace e il benessere del genere umano per i prossimi secoli. Questa crisi non si può risolvere con nessun rimedio isolato o semplice. Perché è in questione non solo il carattere dei rapporti umani ma anche il sistema di valori legati a questi rapporti. Dall'influenza della crisi non è immune nessun campo né del pensiero né dell'azione. Religione, cultura, politica, economia, scienze naturali, tutte queste cose, nella totalità massiccia della loro interdipendenza, ne sono profondamente toccate. Essa spinge al rinnovamento nazioni vecchie come la Cina. Vecchie classi, come per esempio gli Junkers prussiani, vedono distrutta la loro funzione storica. Le conseguenze strategiche della guerra, che questa crisi ha portata nella sua scia, modificheranno le abitudini dei traffici ancora più profondamente delle scoperte geografiche del Rinascimento. In Estremo Oriente i rapporti dei popoli bianchi con quelli di colore si stabiliranno su una base del tutto nuova specialmente quando i risultati dell'esperimento soviettico saranno più diffusamente conosciuti. L'applicazione delle scienze naturali ai problemi sociali apre - come già lo si riscontra nel campo alimentare, - prospettive del tutto ignote nel passato. L'epoca di Grotius è giunta al suo termine, perché oramai è indiscutibilmente chiaro che un mondo cosi unito e interdipendente come il nostro non si può più permettere i rischi imposti dall'esistenza dello stato nazionale sovrano. Ciò condurrà al prevalere graduale di un diritto veramente internazionale, ed è probabile che nella società dell'avvenire il peso specifico della nazionalità graviterà sul campo culturale anziché su quello politico o economico. Sembra inoltre che ci avviamo verso un sistema di produzione sociale col quale sarà possibile superare quell'economia della carestia, dalla quale tutto l'umano agire è stato, nel passato, rigorosamente condizionato. Data come certa la vittoria delle Nazioni Unite, cioè la disfatta di quelle forze che con deliberato intento hanno fatto la guerra negli interessi della contro-rivoluzione, il capitalismo individualista degli economisti classici inevitabilmente si dimostrerà superato. Che esso sia un anacronismo lo sanno da lungo tempo tutti quelli che hanno osservato svilupparsi da una parte l'accentramento dell'industria e dall'altra il sorgere di una nuova casta di dirigenti economici, più che altro eminenti per la loro destrezza nelle manipolazioni finanziarie, padroni assoluti tanto sui propri azionisti che sui consumatori, e spesso in grado di tenere alla mercé dei loro ricatti perfino degli Stati interi. Il peso del loro potere è altrettanto poderoso, quanto il loro operare è, in gran parte, irresponsabile. s;amo giunti ad l!na tappa dell'evoluzione storica è.cvc il lo:::-~ potere dev'essere subordinato all'interesse della comunità, oppure l'interesse della comunità diventerà un tragico pseudonimo del loro potere. Precisamente come nell'Ottocento il privilegio irresponsabile del rentier e dell'aristocratico fu spezzato dallo sviluppo della democrazia politica, cosi nel Novecento dobbiamo spezzare il privilegio irresponsabile del rentier e del finanziere con lo sviluppo della democrazia nel campo economico. Il potere distrugge la società, a meno che non venga controllato da cittadini muniti di pari diritto. Qualsiasi altro concetto del potere corrompe sia i governanti che i governati. L'attuale guerra si combatte, in ultima analisi, per la democratizznzione del potere economico. Ma dobbiamo evitare la facile illusione che questo scopo sarà raggiunto semplicemente con la disfatta di Hitler e dei suoi alleati. Quella disfatta creerà le premesse essenziali per la democratizzazione del potere economico; ma sarà tutt'altro che una garanzia che quelle premesse verranno saggiamente sfruttate. Sono poche tra le Nazioni Unite le potenze dove non siana presenti, spesso in misura pericolosa, quegli elementi che favorirono la contro-rivoluzione in Italia e in Germania e che in Francia erano disposti a tradire il popolo nella speranza di assicurarsi la protezione del conquistatore nazista. Simili elementi esistono anche tra noi e nel popolo americano. La vittoria che porrà fine al pericolo dell'hitlerismo potrà facilmente essere il preludio della continuazione, su un'altro piano, del conflitto da esso provocato. Perché è certo che, alla fine di questa guerra. entreremo nell'era dell'economia pianificata: ma è del tutto incerto per quale scopo sarà pianificato. La contro-rivoluzione - soprattutto nella sua forma nazista - ha dimostralo che si può benissimo pianificare nell'interesse della minoranza, e che la tecnica dell'armamento e dell'amministrazione moderna possono assicurare a quella minoranza un dominio incontrastato sulla maggioranza. E' tuttavia improbabile che quesla tirannia sia permanente, poiché essa dipende, in fin dei conti, da un totalitarismo nemico dello spirito libero che è essenziale alle forme più alte di ricerca scientifica. Dobbiamo ricordarci che nel nazismo nulla vi è stato di originale fuorché le dimensioni gigantesche dell'inganno e della crudeltà da esso praticati. La sua tecnica l'ha ereditata dal passato; il suo genio militare è semplicemente la grande tradizione prussiana BibliotecaGino Bianco attrezzata con armi fabbricate col sacrificio del benessere generale; la sua organizzazione è in gran parte l'applicazione dei metodi bolscevici agli scopi della contro-rivoluzione. Per noi la vera lezione della pianificazione nazista è, primo, che essa è in funzione della guerra, e secondo, che annienta la personalità del singolo cittadino per salvaguardare i privilegi della rlasse dominante. Noi non possiamo sperare di attuare la democratizzazione del potere economico se quelli che possedono e controllano la proprietà, specialmente nell'attuale èra dei trust giganti, sono in grado di acquistare, per mezzo di tale democratizzazione, nuovi privilegi. Sarà difficile ostacolare questa tendenza a meno che gli strumenti essenziali della produzione non siano posseduti e controllati dalla intera comunità direttamente, e nel proprio interesse. Non vi è nessun altro modo di porre fine all'economia C::~l!n.ca:rcstia inc,c:::te alla psicolcgi~ dc! grande capitalismo, specialmente di quello a base monopolistica. Non credo che ciò debba significare necessariamente la statizzazione integrale dell'industria e dell'agricultura. Significa piuttosto, io credo, che le basi fondamentali del potere economico dovranno essere nelle mani della comunità; appena esse saranno assicurate all'interesse della maggioranza invece della minoranza, l'avvenire economico potrà svilupparsi secondo i metodi della democrazia. Le operazioni economiche a ciò necessarie sono quattro. La più vitale è il controllo del capitale e del credito. Ciò significa, da noi, la nazionalizzazione della Banca d'Inghilterra, delle banche con capitale azionario, delle società di assicurazioni e delle grandi società edilizie. Non vi è altro modo per assicurare che il denaro sia direttamente e continuamente al servizio del bisogno pubblico e non del profitt0 privato. Dobbiamo concepire la politica degl'investimenti di denaro come lo strumento cosciente di un piano economico per riattrezzare la nazione secondo le necessità del mondo del dopoguerra. Ciò vuol dire evidentemente un sistema di priorità nel concedere dei prestiti commerciali in dipendenza dell'importanz'l economica dell'obiettivo. Le case popolari sono più importanti dei palazzi lussuosi; le scuole sono più importanti dei cinematografi; i prestiti per aiutare i miglioramenti agricoli sono più importanti di quelli per promuovere la fabbricazione e la vendita di un nuovo prodotto cosmetico. Lo stato deve possedere e controllare la terra. Ciò è essenziale per tre ragioni. E' essenziale per la pianificazione urbanistica, specialmente nelle città bombardate. E' essenziale per assicurare all'agricoltura il posto che le spetta nella nostra economia nazionale. E' essenziale per distribuire l'industria serondo le norme della maggiore utilità collettiva e anche per conservare le bellezze naturali del paese. Vi dev'essere un controllo statale delle importazioni ed esportazioni. Questo controllo è evidentemente essenziale per qualsiasi produzione pianificata nell'interesse del consumatore. Esso deriva logicamente dal controllo statale del capitale e del credito. Senza di esso è chiaro che non potremo inquadrare la nostra economia nazionale in quel controllo internazionale degli scambi oramai inevitabile. E solo cosi si potrà organizzare nell'interesse nazionale la compera in blocco di materie prime ALL' ITALIA Ora m'accorgo d·amarti, Italia, di salutarti necessaria prigione. Non per le vie dolenti, per le città rigale come visi umani, non per la cenere di passione delle chiese, non per la voce dei tuoi libri lontani; ma per queste parole tessute di plebi, che battono a martello nella monte, per questa pena presente che in te m'avvolge straniero. Per questa mia lingua che dico a gravi uomini ardenti avvenire liberi in fermo dolore compagni. Ora non basta nemmeno morire per quel tuo vano nome antico. (Firenze. 1942) e la vendita in blocco delle nostre esportazioni, con la grande economia resa possibile da entrambi le operazioni. Ecco quel che ci insegna l'esperienza russa, i;segnamento convalidato in modo decisivo dalla nostra stessa esperienza durante la guerra. Vi devono essere inoltre possesso e controllo statale dei trasporti, dei combustibili e dell'energia elettrica. Non voglio dimostrare di nuovo perché essi siano fondamentali alla pianificazione democratica, ma indicare alcuni loro aspetti.. Ciascuno di essi coinvolge nella sua forma attuale un grande spreco. Senza nazionalizzare i servizi marittimi non possiamo servircene per il controllo statale della importazioni e delle esportazioni. Senza la nazionalizzazione delle ferrovie e dei trasporti stradali vi saranno duplicati e concorrenze superflue; le possibilità dei trasporti stradali, specialmente per i viaggi brevi, verrebbero sacrificate alla pressione politica che possono esercitare le ferrovie, come si è visto nel passato. Lasciare l'aviazione in mani private, dopo l'esperienza dei tempi di guerra, è beninteso impossibile; ci si domanda anzi se non conviene addirittura instaurarne un pieno controllo internazionale. L'alternativa sarà quasi certamente un vasto sistema di sussidi e di guerre di tariffe, con ripercussioni poco desiderabili e perfino pericolose. La nazionalizzazione delle miniere di carbone è una necessità psicologica dato l'atteggiamento dei minatori verso i proprietari; essa offre una possibilità immensa di economizzare specialmente nella vendita del carbone; e l'esperienza dimostra che è l'unico sistema che permette di tentare, su scala adeguata, lo sfruttamento scientifico dei prodotti sussidiari del carbone. L'argomento a favore della nazionalizzazione dell'energia elettrica è molto semplice: si è già dimostrata la superiorità dell'unità municipale di rifornimento su quella privata; e, senza l'unificazione su base nazionale, l'elettrificazione rurale, cosi urgente nelle campagne e per lo sviluppo agricolo, resterà impossibile a meno di dare grossi sussidi a una quantità di società private. Lo stesso per i servizi del gas e dell'acqua; specialmente nelle campagne, solo la loro unificazione sotto il controllo sta• tale li potrà portare nelle case dove ancora mancano. Su queste basi sarebbe possibile di iniziare seriamente una democratizzazione del potere

Bi economico. E' chiaro che molto dipenderà dal personale che, eserciterà i controlli a nome della nazione. Molti impiegati dovranno evidentemente essere uomini di affari con una conoscenza diretta e intima dell'industria; noi non potremo fare a meno della loro esperienza, qualunque siano gli altri esperti di cui faremo uso. Ma è altrettanto chiaro che i controlli esistenti, imposti dalla guerra, nella loro forma attuale, sono un grave pericolo pubblico. E' impossibile affidare delle funzioni cosi importanti a degli uomini i quali, come tanti controllori di oggi, sono direttamente e personalmente interessati nelle industrie che controllano. Nel nuovo sistema, l'unica lealtà del controllore dovrà essere verso lo stato che egli serve. Non posso qui intraprendere una discussione sui tipi di gestione delle industrie nazionalizzate né sui controlli che saranno esercitati su •quelle rimaste private. Ad ogni modo, io dubito che debbano essere conformi ad un qualsiasi schema generale; credo probabile che le forme verranno adattate con molta flessibilità alle esigenze particolari della singole industrie. Più importante è la questiÒne dei loro rapporti col Parlamento. Come li vedo io, si effettueranno attraverso il Gabinetto; e credo che il Gabinetto, a sua volta, troverà necessario di creare uno speciale comitato di ministri per la produzione. Questo comitato avrà bisogno di un personale di esperti, un po' come Gosplan nell'Unione Sovietica, incaricato di preparargli il materiale sul quale esso baserà le sue proposte definitive al Gabinetto; e quest'ultimo, a sua volta, dovrà chiedere l'approvazione generale del Parlamento. Per ragioni da me esposte altrove, non vedo nessun vantaggio a creare uno Stato Maggiore Economico in più di questi enti. Un nuovo gradino nella gerarchia dei controlli, più che conferire maggiore chiarezza vi porterebbe maggiore confusione, e avrebbe indubbiamente l'effetto di ritardare decisioni urgenti. L'impostazione generale del piano, in un regime di democrazia parlamentare, è la chiara responsabilità dei ministri; e quella responsabilità viene indebolita, non rafforzata da un concetto come quello di Sir William Beveridge, secondo il quale uno Stato Maggiore Economico dovrebbe meditare in linea di massima sulla pianificazione senza essere autorizzato a decidere sull'applicazione delle sue meditazioni. Più chiara sarà la responsabilità per le decisioni, e tanto più il giudizio del loro valore potrà essere diretto. Naturalmente queste proposte non presuppongono la creazione di uno stato socialista alla fine della guerra; esse sono semplicemente una base sulla quale, se il corpo elettorale dovesse nell'avvenire cosi decidere, si potrebbe eventualmente costruire uno stato socialista. Il loro scopo è un'altra, apparentato: quello di salvaguardare la• nostra democrazia politica contro quelle forze contro-rivoluzionarie presenti tra di noi, la cui autorità e· risolutezza erano già prima dello scoppio della guerra in forte aumento. E' anzi evidente, come ho già 1 detto in questo libro, che, senza queste misure, il rafforzamento del capitalismo monopolistico, che il clima di guerra ha favorito, potrà facilmente aumentare, anche senza volerlo esplicitamente, l'autorità e la risolutezza di quelle forze. Io credo dunque che, se non si realizza, al momento della vittoria, qualche programma di questo genere, la nostra speranza di poter democratizzare il potere economico nella Gran Bretagna sarà ben magra; e lo stesso si può dire per le altre Nazioni Unite, specialmente per gli Stati Uniti d'America. O la democrazia politica prevarrà sul monopolio economico, oppure il monopolio economico dominerà la democrazia politica. La ragione di ciò è molto semplice. Le forme economiche tendono a generare la struttura politica più adatta al loro scopo; la nostra esperienza ha dimostrato in modo definitivo che l'economia del capitalismo monopolistico si può adattare solo con estrema difficoltà alla politica richiesta da una società democratica. Il modo in cui la borghesia in ascesa, dopo la Riforma, impose l'adattamento di tutte le· istituzioni sociali al potere economico da essa acquistato, è stata l'espressione più drammatica, nell'epoca moderna, di questa tendenza. Siamo giunti ad una fase nella nostra civiltà in cui, ancora una volta, si richiede un rinnovamento fondamentale. La guerra ci fornisce la possibilità di intraprenderlo senza dover attraversare uno di quegli amari conflitti interni che sorgono quando gli uomini si rifiutano di guardare apertamente in faccia ai loro problemi e di agire finché vi è ancora tempo di risolverli pacificamente. Ma è improbabile che quest'occasione si protragga oltre la durata della ostilità. L'atmosfera drammatica del sacrificio si affievolirà; l'entusiasmo cederà il posto alla stanchezza; e la politica tenderà a basarsi su contrasti piuttosto che su obiettivi comuni da raggiungere. Ciò si manifesta già chiaramente nei maggiori partiti politici sia nella Gran Brettagna che negli Stati Uniti; l'abisso, per esempio, che separa il concetto laburista dell'istruzione pubblica nel dopo-guerra da quello conservatore non è più profondo dell'abisso che separa il concetto rooseveltiano del New Deal sui diritti di proprietà da quello degli economisti ortodossi tipo Henry Ford o Tom Girdler. Ma questo si avvera sul piano internazionale non che su quello interno. I rapporti di potere tra i grandi stati, specialmente tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti da una parte, e la Russia dall'altra, saranno per forza dettati dai loro rapporti interni di produzione. Se questi rapporti interni mirano all'espansione, ci accorgeremo che la pace è la conseguenza naturale dell'espansione; ma se sono, corno ora, di tendenza restrizi0r nista, ne risulterà uno slittamento verso la guerra cosi inevitabile come quello dei vent'anni di interregno. Ci troviamo in una posizione dove i bisogni della vittoria coincidono con la necessità del rinnovamento. Lo spirito che ci anima oggi è quello, rarissimo, in cui nessun interesse partigiano può prevalere contro l'interesse nazionale. Ma questo spirito non sopravvivrà alla guerra; e i capi che mancheranno di sfruttare le sue possibilità annulleranno quegli stessi scopi che cercano di raggiungere. Harold J. Laski. Due posizioni false :t. 0 L'anti-comunismo Con grande ritardo, dovuto alle diverse censure, ci è arrivato il no. del 14 agosto 1943 del settimanale «Italia Libre» di Buenos Aires dal quale togliamo la seguente informazione: «Nuova York, Agosto. - Eminenti personalità della colonia italo-americana degli Stati Uniti hanno costituito un comitato allo scopo di agitare l'opinione pubblica a favore di una "giusta pace,, con l'Italia: una pace che rispetti l'integrità territoriale del paese ed impedisca il passagio da una dittatura ad un'altra. Il movimento fu lanciato in una riunione ristretta che ebbe luogo all'Hotel Baltimore di Nuova York per iniziativa del Giudice della Corte Suprema, Ferdinando Pecora, oriundo della Sicilia. Vi parteciparono, fra gli altri, Luigi Antonini, Presidente dell'Italian-American Labor Council; il dottor Carlo Fama e Generoso Pope, proprietario del "Progresso,,; il tesoriere della città di Nuova York, Almerindo Portfolio, ed altre personalità appartenenti ai partiti democratico, repubblicano e laburista. Al termine della riunione, il Giudice Pecora annunziò che gli intervenuti avevano deciso di costituirsi in un "Comitato Americano pro Democrazia Italiana,,. Aggiunse che si penserà subito ad organizzare filiali a base regionale in tutta l'America, dall'Atlantico al Pacifico. II programma di lavoro adottato comporta lo stabilimento di contatti permanenti con le varie agenzie governative, specialmente con il Dipartimento di Stato, allo scopo di studiare i mezzi più indicàti per promuovere - secondo le parole stesse del Giudice Pecora - "la riabilitazione politica ed economica dell'Italia, secondo i principi della democrazia, affinché • l'Italia possa riprendere il suo posto onorato tra le libere nazioni del mondo,,. Luigi Antonini presentò un ordine del giorno, che fu approvato dopo lunga discussione, nel quale si asserisce che l'Italia non deve passare da una dittatura all'altra, inclusa specificatamente la dittatura comunista. La riunione fornì anche l'occasione per una riconciliazione tra elementi che nel passato erano stati in lotta fra loro a causa di divergenze politiche. Fra i riconciliati la stampa ha fatto i nomi del Dr. Carlo Fama, esponente della massoneria e del partito repubblicano, e di Generoso Pope, amico personale del Presidente Roosevelt e pezzo grosso del partito democratico.» Una politica democratica che si esprime con la riabilitazione del noto fascista Generoso Pope, «amico personale di Roosevelt e pezzo grosso del partito democratico», e con una esplicità e unica pregiudiziale, quella anticomunista, non può avere il nostro consenso. Vi sono delle ragioni fondamentali di principio che vietano ad ogni socialista d'intervenire in una crisi politica con l'obiettivo principale rivolto contro un altro partito operaio; e vi sono delle ragioni particolari inerenti all'attuale situazione italiana, nella quale il pericolo maggiore è a destra, in un nuovo fascismo, come ha riconosciuto perfino Benedetto Croce. Ma l'atteggiamento opposto è anche falso. 2° La capitolazione di fI·onte al partito comunista Riceviamo una lettera da Roma nella quale tra l'altro è detto: «Non è un mistero per nessuno che tra gli 10 eca Gino- 1anco attuali dirigenti socialisti ve n'è qualcuno che pensa concretamente ad una fusione col partito comunista. Di ciò discutiamo molto, ma nell'isolamento in cui ci troviamo sono un po' tempeste in un bicchiere d'acqua. E' certo che alla periferia la grande maggioranza dei compagni è vivamente contraria ad una simile capitolazione che nulla giustifica, ma la periferia ora non ha modo di farsi sentire. E noi non vogliamo distrarre le nostre forze in una pol~mica interna proprio nel momento in cui la situazione militare e quella politica richiedono tutte le nostre energie. La nostra pos1z10ne è: unità d'azione si, fusione no. Nell'interesse delle classi lavoratrici e della politica italiana in genere, una fusione col partito comunista sarebbe un disastro. Si tornerebbe ai tempi di Bombacci ! Si tornerebbe al Barnum ! I congressi del partito unificato sarebbero nuovamente spettacoli da circo equestre! Senza contare quali svolte all'estrema destra o all'estrema sinistra imporrà Stalin ai comunisti nostrani nel dopo-guerra. Fonderci significherebbe fotterci! Che si lasci ... fondere chi gli piace, noi manterremo in piedi il partito socialista.» I Socialisti per gli Stati Uniti d'Europa La coscienza europea si fa strada nei partiti socialisti. Bisogna fare in modo che essa non resti vaga aspirazione, ma si trasformi in decisa e forte volontà politica. Registriamo le opinioni dei compagni dei vari paesi. I Tedesdii In una dichiarazione dell'Unione dei gruppi socialisti tedeschi in Inghilterra è detto: «Noi socialisti e sindacalisti tedeschi siamo decisi, dopo il crollo della dittatura hitleriana in Germania, a distruggere le basi sociali del nazional-socialismo e dell'imperialismo tedesco e nella politica estera della nuova Germania a dare le prove della nostra buona volontà per una collaborazione pacifica. Noi vediamo un primo necessario passo per la pacificazione dell'Europa nel disarmo totale della Germania, che seguirà alla disfatta militare, e che abbraccerà anche il disarmo di tutte le organizzazioni del partito ... Noi socialisti e sindacalisti tedeschi ci rendiamo conto che i principi dell'auto-decisione e della collaborazione internazio.nale potranno realizzarsi solo nella misura in cui tutte le nazioni rinunzieranno alla propria sovranità militare ed economica. Noi siamo persuasi che una Germania democratica e socialista darà il suo pieno contributo ad un tale nuovo ordine sopranazionale.» I Francesi Il diciotto giugno 1942 il giornale socialista illegale «Le Populaire» pubblicò un manifesto del Comité d' Action Socialiste che dirige il partito socialista francese clandestino. Nel manifesto era detto: «Un'Europa sana o un ordine mondiale può essere costrutto soltanto se i trattati di pace eviteranno ogni abuso di potere, ogni misura oppressiva o la spartizione di paesi ... E' un fatto che oggj l'opinione pubblica dei paesi occupati (dalla Germania) e dei popoli belligeranti sempre meno distingue il popolo tedesco dai suoi dominatori. Malgrado ciò noi dobbiamo prepararci a ricercare in piena calma le condizioni di una pace duratura. Noi dobbiamo trovare una soluzione la quale conduca ad una pace durevole e che non susciti sentimenti di vendetta e di nazionalismo.» Esattamente un anno più tardi, nel giugno 1943, lo stesso giornale precisa il pensiero dei socialisti francesi in merito: «L'apparato militare tedesco dev'essere distrutto, l'industria pesante tedesca dev'essere spezzata e la grande proprietà: terriera dev'essere socializzata. Questa rivoluzione tedesca noi dobbiamo sostenerla. b'unità tedesca è un fatto storico. Perciò noi respingiamo tutte le proposte di una spartizione della Germania. L'egemonia della Prussia e dello spirito prussiano deve essere spezzata per mezzo di un sistema federativo, per mezzo di un controllo d~lle istituzioni politiche tedesche e dell'istruzione pubblica. Ma queste riforme necessarie potranno essere applicate solo in un mondo nel quale i socialisti saranno abbastanza influenti per stabilire una collaborazione stretta ed amichevole colle forze democratiche tedesche ... L'idea di spartire l'Europa fra due o tre grandi potenze noi la respingiamo. Tutte le nazioni, anche le più potenti, devono rinunziare ad un parte della loro sovranità.» I Norvegesi La rivista illegale dei sindacati socialisti norvegesi ha pubblicato: «Il mondo democratico deve contribuire a rinnovare la Germania sostenendo le sue forze democratiche. Se il nazismo dev'essere veramente distrutto, allora: bisogna estirpare le sue essenziali radici sociali: il fatale blocco tra l'industria pesante, la grande proprietà terriera e lo Stato Maggiore. La classe operaia sarà un fattore importante di questo rinnovamento. Essa cercherà di rafforzare la democrazia con misure socialiste. Molto dipende dal fatto se le potenze vincitrici e i loro eserciti favoriranno o impediranno un tale sviluppo. Un impedimento delle tendenze democratiche e socialiste sarebbe non soltanto in contraddizione con la Carta dell'Atlantico, ma rafforzerebbe la reazione.» Gli Olandesi La rivista olandese «Vrij Nederland» pubblica un articolo di un giornale clandestino olandese nel quale si legge: «Ogni tentativo di abbattere o di spartire economicamente la Germania è irragionevole. E' assolutamente necessario di accettare la Germania in una economia europea unificata. Il punto di partenza dei pensieri internazionali non devono essere gli stati nazionali ma la comunità europea. Un'altra questione è quanta sovranità bisogna lasciare ai singoli stati. L'uguaglianza dei diritti non condurrebbe ad una restaurazione dei diritti sovrani delle nazioni vinte, ma garantirebbe ad esse una certa limitata influenza nel consiglio o nella federazione europea.» Gli Italiani Abbiamo già pubblicato nel numero scorso un documento del Centro Interno del P. S. I. per una federazione europea. Riportiamo ora una proposta di variante al programma del Partito redatta da un dirigente del gruppo Movimento per l'Unità Proletaria, gruppo attualmente nel partito unificato: «I socialisti italiani vogliono che dalla pace che seguirà la presente guerra siano poste le basi di un solido ordinamento unitario che si concreti in una federazione dei liberi stati europei. Respingendo ogni progetto di Società delle Nazioni che, lasciando intatta la struttura economica, politica, militare dei vari stati si presenti come una semplice istanza superstatale in cui i singoli stati rappresentati in quanto tali con tutto il peso della loro sovranità e alle cui decisioni uno stato o un gruppo di stati fosse recalcitrante, qu'ando ne abbia forza sufficiente, ritiene che l'unica premessa per rendere impossibile che ogni conquista politica, economica e sociale venga travolta d'un tratto da una nuova guerra imperialista, è la formazione d,i un'unica federazione europea, con istituzioni rappresentative alle quali i cittadini eleggano i loro rappresentanti direttamente, e non per il tramite dei vari stati; che provveda all'unità del mercato con un'organizzazione razionale dell'economia; che abbia un esercito proprio, lasciando alla cura dei vari stati solo il mantenimento dell'ordine pubblico; che, pur curando la difesa delle autonomie nazionali, culturali, linguistiche, provveda a quei profondi ed intimi contatti fra i popoli dai quali deve sorgere una rinnovata coscienza europea. I socialisti italiani ritengono che questa prospettiva, che poteva sembrare un lontano ideale ancora pochi anni fa, si troverà, nel periodo che seguirà la presente guerra, molto prossima alla sua realizzazione, e sono convinti che tale meta sia strettamente collegata ai fini che essi si propongono in quanto socialisti; giacché la formazione di un'unità federale europea sarà evento di tale portata rivoluzionaria da non poter avvenire se non coll'attivo concorso delle masse e nell'ambito di un profondo generale rinnovamente sociale del nostro continente. Per l'Italia, come per tutti i popoli che usciranno vinti da questa guerra, una tale soluzione costituirebbe fra l'altro l'unico modo di evitare la sconfitta, la mutilazione territoriale, l'aggiogamento economico. E il partito socialista ritiene che proprio l'atteggiamento delle masse possa avere un'azione decisiva a questo proposito, creando situazioni di fatto di cui i vincitori non potranno non tener conto, provocando interventi e contribuendo a far precipitare situazioni internazionali nel senso dell'unità europea.» «Per la distruzione dei mostri guerra e militarismo ci vuole qualchecosa di più di una vittoria militare: ogni vittoria militare infatti racchiude un pericolo per la libertà, e questo vnle anche per le repubbliche vittoriose; una vittoria strepitosa può fare in otto giorni di un democratico altrimenti ragionevole un politicante imverialista. Se la vittoria militare delle democrazie non è accompagnata da una sicura garanzia del prevalere di un pensiero elevato e di un rinnovamento sociale, essa sarà initlile.» ROMAIN ROLLAND, 20 agosto 1918.

Sulle origini di que~ta guerra La verità, oieot'alfro me la -ve1•ità Se rinunciassimo a ricercare la verità sull'attuale guerra, sulle sue origini, sulla sua natura, - la verità e nient'altro che la verità, - tradiremmo noi stessi, la nostra funzione di socialisti, di guide e educatori della classe operaia, tradiremmo questa nostra missione, che possiamo e dobbiamo considerare come una missione sacra, per la serietà delle questioni che solleva e anche per la fiducia che hanno in noi quelli che ci leggono e ci seguono. Se rinunciassimo a ricercare la verità sull'attuale guerra, sarebbe un dovere di coerenza rinunc'are a ricercare ogni altra verità, di ogni altro fenomeno politico o sociale della nostra epoca, perché una grande guerra come l'attuale è il punto d'incrocio, il punto di confluenza, di tutte le crisi particolari, di tutti i problemi, di tutte le contraddizioni del nostro tempo. E tutto quello che noi potremmo dire sullo stato, sull'economia, sulle nazioni, sulle colonie, sulla disoccupazione, sarebbe unilaterale e insomma falso, se seguissimo l'esame di questi fatti particolari fino al punto in cui sono sboccati nella guerra e li poi ci arrestassimo. Un socialista, una vera guida dei propri compagni di lavoro, ha il compito di diffondere attorno a sé, con la parola e con gli scritti, la coscienza, la consapevolezza, di tutto quello che accade; e come potrebbe rinunciare a dire la verità su un avvenimento cosi grave quale la guerra? Se rinunciassimo a ricercare la verità sull'attuale guerra, dovremmo rinunciare ad occuparci del dopo-guerra; è infatti intellettualmente impossibile affrontare seriamente uno solo dei problemi del dopo-guerra se non si ha una nozione esatta, chiara, storicamente fondata, delle origini e della natura dell'attuale conflitto mondiale. Purtroppo le publicazioni veramente serie sulla guerra in corso sono rare, e per quello che a noi consta quasi esclusivamente di autori inglesi. In America e negli stessi paesi neutri dell'Europa vi è una diffusa bigotteria antifascista molto restìa a trattare con serietà l'origine profonda del conflitto attuale «per non far.e il giuoco del fascismo». Noi siamo dell'opinione che solo la menzogna e la superficialità fanno il giuoco del fascismo. E siamo fermamento convinti che un piano del dopoguerra il quale non parta da un'analisi seria e disinteressata delle origini delle contraddizioni attuali è un castello costruito sulla sabbia, come lo fu il Trattato di Versaglia. Solo una giusta diagnosi può ispirare una giusta terapia; una falsa terapia, che curi solo i sin tomi del male e non le sue cause, in realità l'aggrava. E poiché non è possibile trattare della seconda guerra mondiale senza rievocare la prima, sia ben chiaro che non intendiamo riaprire delle vecchie polemiche con gli amici antifascisti che allora ebbero un atteggiamento diverso dal nostro e che a modo loro fecero il proprio dovere e pagarono di persona. Una guerra è sempre una crisi cosi vasta che in essa sono molto spesso coinvolti accanto agli ·affaristi e ai pescicani, uomini di ben altra e opposta levatura morale e intellettuale. Ma la presenza di gruppi d'idealisti non basta a cambiare il contenuto storico oggettivo di un avvenimento e gli idealisti non devono offendersi se l'analisi spassionata di un movimento al quale essi sacrificarono la propria gioventù arriva a constatazioni molto prosaiche. La nostra rivendicazione della verità sulla guerra può far sorridere i cosidetti politici realisti i quali considereranno il nostro modo di sentire e giudicare come astratto «poiché la realtà politica del mondo di oggi è la guerra e rispetto ad essa gli uomini sono divisi in due parti». In realtà nemmeno noi ignoriamo il fatto guerra e sappiamo che ogni giudizio non superficiale sulle origini e la natura di questa guerra implica un apprezzamento differenziato delle parti in conflitto; ma noi crediamo di servire l'umanità, la quale dovrà continuare a vivere anche dopo questa guerra, se non ci lasciamo imbottire il cervello da nessuna propaganda interessata e se, già da ora, in piena guerra, volendo ricercare la via per salvarci da una terza guerra mondiale, ci dedichiamo alJo studio delle cause della guerra attuale. Ciò facendo, non soltanto sentiamo di non cadere nell'astratto e nel vago, ma ci sappiamo uniti ad una realtà più grande e più forte di quella dei politici realisti, sappiamo di servire i milioni di uomini, i milioni di poveri cristi vittime deIJa guerra, sappiamo di servire il nostro paese e la causa del socialismo. Anche questa è una realtà, per noi ben più reale delle Cancellerie e dei Ministeri in guerra. Contro l'imhottimeoto dei crani Forse non è superfluo che noi ci spieghiamo ancora più chiaramente: certo, per la causa del socialismo e della democrazia non è indif ferente come finirà questa guerra; noi siamo solidali coi socialisti che si battono contro il fascismo e il nazionalsocialismo; ma la causa del socialismo, per noi, non si identifica interamente con quelJa di nessuno degli attuali paesi belligeranti; essa si identifica invece con la causa degli sftuttati e degli oppressi di tutte le contrade del mondo. E' perciò indispensabile che i socialisti, anche nella lotta contro il fascismo, non abdichino in nessuna maniera alla loro autonomia, e facciano uso del loro diritto anzitutto nel campo del pensiero, nella ricerca dei funesti errori che hanno condotto alla guerra attuale e nella discussione sui cambiamenti da apportare al più presto nei rapporti tra i popoli per allontanarè la sciagura di nuove guerre. On ambasciatore bizzarro William E. Dodd - n. a Clayton (Carolina del Nord) nel 1869 - fu ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino dal principio dell'estate 1933 fino alla fine del 1937. Il suo diario, del quale abbiamo tradotto le notizie più interessanti, comprende dunque un periodo importante, forse il più importante della preparazione della guerra. L'ambasciatore Dodd non fu un ambasciatore di carriera; nemmeno uno di quei ricconi che, per aver elargito nel 1932 una forte somma alla cassa elettorale del Partito Democratico, si credettero autorizzati ad aspirare al posto di ambasciatore a Berlino. Il Signor Dodd - secondo il nostro criterio un benestante, ma secondo quello americano piuttosto un nullatenente - fu semplicemente professore di storia all'Università di Cicago. Nel campo professionale e nella «Repubblica degli Scienziati» godè peraltro di una grande reputazione. Una prova ne è la sua designazione per il 1934 a Presidente della Società Storica Americana. Torna ad onore della chiaroveggenza di Roosevelt e del suo senso d'indipendenza se, magrado tutti gli impacci che legano anche il potente Presidente degli Stati Uniti, abbia affidato al Signor Dodd un posto così importante come quello di ambasciatore a Berlino. La maniera come lo fece è tutta americana. Dodd stesso cosi la racconta nel suo Diario; è la prima notizia con data dell'8 giugno 1933: «alle 12 il telefono del mio ufficio alla Università di Cicago suonò. Franklin Roosevelt è al telefono: Vorrei sapere se sia disposto a rendere. un grande servizio al Governo. Desidererei che si recasse in Germania quale ambasciatore. Restai molto sorpreso e · risposi chiedendo un po' di tempo per riflettere. Ribatte: Due ore Vi bastano per prendere la decisione? - Forse. Bisogna che ne parli con le autorità Universitarie. Due ore dopo il Presidente riceveva la mia risposta affermativa e poteva presentare al Gabinetto adunato la proposta di nomina che fu accettata senza opposizione. Per il posto di ambasciatore a Berlino il Signor Dodd possedeva alcune cognizioni e qualità del tutto indicate. Aveva studiato da giovane per tre anni a Lipsia, vi si era addottorato con una tesi sul grande Presidente democratico degli Stati Uniti Jefferson. Conosceva a fondo la lingua tedesca come pure il paese ed i suoi abitanti. Di più: «il suo rispetto per i migliori tratti della vecchia Germania ed il calore cordiale che l'animava verso il popolo tedesco era insito nel suo essere.» Cosi il suo collega Charles A. Beart, in una prefazione all'edizione americana del Diario, descrive l'atteggiamento di Dodd. Ancora più sintomatico per il carattere di Dodd è il segu-ente stralcio dal medesimo brano: «La sua fedeltà alle tradizioni umanistiche dell'America era al disopra di ogni dubbio.» Nulla meglio del suo Diario dimostra la profonda umanità e la nobiltà dei sentimenti di Dodd. Basterebbero queste doti per far emergere il suo Diario al disopra di tutte le altre memorie che in quest'ultimi tempi sono state gettate sul mercato da diplomatici, statisti, giornalisti o magari ricchi viaggiatori alla ricerca del sensazionale. Quante di queste memorie non rappresentano che banali cicalate di società ? Un altro fattore rende preziose le Note del Dodd. Esse sono state scritte giorno per giorno, fresche perciò nell'impressione e nel ricordo, nè in seguito sono state modificate dagli editori, il figlio e la figlia del defunto ambasciatore. Il Diario fa risaltare cosi lo spirito democratico degli Stati Uniti dove certe critiche aperte ad alti funzionari ed al più alto, come quella a Sumner Welles e allo stesso Roosevelt confidate da Dodd al suo taccuino, non sono cadute sotto le cisoie del censore o cancellate con discreto opportunismo dagli editori. Ma questa sincerità senza belletti non è il merito essenziale di queste Note. Ciò che dà loro un valore che supera la contingenza degli- avvenimenti è il fatto che queste Note « do c u mentano come i preparativi della guerra che attualmente sconvolge il mondo si sono estesi per anni, che le cause della guerra erano BibliotecaGino Bianco reperibili e che si sarebbe potuto stornarle con la buona volontà degli uomini responsabili e con una sufficente perspicacia delle m a s s e. L a g u e r r a s i s a r e b b e p o - t u t a e v i t a r e. E s s a n o n è s c o p p i a t a per un fato ineluttabile di forze i n s c r u t a b i 1 i p e r 1 ' u m a n i t à. L a guerra è stata, nel vero senao della parola, fatta, e fatta da uomini, non da forze soprann a tu r a 1 i.» Questa è la verità lampante che balza da ogni pagina dalla Note quasi uno schiacciante verdetto. Cosi il libro diventa un'accusa che ci investe tutti. Contro Dodd si è intrigato a Washington da tutte le parti, tacciandolo di «allarmista» e di «cacciatore di sensazionali». Anche altri ammonitori che avrebbero potuto esprimersi davanti l'opinione pubblica più apertamente di un ambasciatore sono stati in egual modo ridotti al silenzio. Ma restavano tuttavia sufficenti dati di fatto e sintomi bastanti per illuminare anche «l'uomo comune» dell'epoca e, con un po' più di risolutezza, per sviare il corso degli avvenimenti. Ma prigrizia dello spirito, ignavia del cuore, desiderio di «distrazione» mentre era invece cosi necessaria la concentrazione, fuga dalla realtà verso sogni bell'e preparati e quasi sempre tra i più banali, scetticismo quando abbisognava la fede, e superstizione quanto necessitava uno scetticismo critico, tutto ciò caratterizò questo periodo decisivo e la conseguente colpa dei contemporanei. Si cianciò fatalisticamente di «destino» nascondendo a sé stessi c h e 1 a p o 1 i t i c a e r a i 1 d e s t i n o , destino del mondo e del singolo. E mentre i «bene intenzionati» furono acquiescenti e passivi, tanto più attivi furono i «demoni» e tutti quelli ad essi asserviti. Furono loro ad imprimere il marchio a questo mondo e dargli l'impùlso distruttivo. Responsabilità in alto e in basso Si trovano nel Diario di Dodd preziosi documenti sull'attività esiziale spiegata dai padroni dei grandi giornali, dai grossi industriali e dai magnati della finanza che giocarono a sangue freddo colla guerra come mezzo per favorire i loro egoistici interessi particolari. Dalle sue note risulta come diplomatici e statisti svisarono od annebbiarono i fatti, come scienziati ed artisti vennero meno alla causa loro affidata, ma anche come popoli intieri con troppa faciloneria urlarono in combutta coi lupi e forgiarono cosi colle proprie mani il loro spaventoso destino. Questo è quanto c'insegna il Diario del Dodd e dobbiamo dedurne gli ammaestramenti s e n o n v o g l i a mo che la prossima generazione debba subire una terza ed ancor più spav e n t o s a g u e r r a m o n d i a 1 e. Se pure è provato, senza ombra di dubbio, a quali nazioni ed uomini incomba la responsabilità dello scatenamento delle forze demoniache, d'altra parte non dobbiamo mai dimenticare che questa potenza, capace di rovesciare gli orrori della guerra contro il mondo fu da loro conseguita unicamente perché furono favoriti non solo nello interno ma anche dal di fuori. Anche questo è provato dal Diario dell'ambasciatore americano. Questa missione, per la quale non aveva brigato, non fu accettata dal Signor Dodd a cuor leggero. Già nel maggio 1933, richiesto se eventualmente avesse accettato un incarico diplomatico, Dodd aveva dichiarato a Washington che non avrebbe desiderato andare a Berlino perché tutto il movimento hitleriano gli era esoso e sarebbe restato continuamente sotto una oppressione insopportabile per il suo temperamento. Ciò che poi visse a Berlino superò senza dubbio le più fosche previsioni. Ne fu scosso profondamente come uomo ma non nella sua fede s u 1 v a 1 o r e d e 11 a D e m o c r a z i a. Tutt'al contrario! Si rafforzò anzi la sua convinzione che solo p e r 1 a vi a d e m o c r a ti c a l'umanità avrebbe potuto raggiungere il regno della Libertà e dell'Umanesimo. Ma era al tempo stesso convinto che la Democrazia fosse ancora in div e n ire e ben lungi dall'aver raggiunto il suo compimento, anzi, che i compiti più gravosi dovevano ancora attendersi. Charles A. Beard cita come uno dei detti prediletti di Dodd «la Democrazia non è stata ancora veramente saggiata». Come uomo e come storico Dodd fu troppo lungimirante ed onesto perché gli sfuggissero o potesse tacere le falsificazioni della democrazia politica conseguenza della spartizione ineguale della potenza economica e delle materie prime. E contro Roosevelt affacciò la sua preoccupazione che la struttura economica piramidale instaurata negli Stati Uniti avrebbe finito col condurre ad un nuovo feudalesimo, alla trasformazione dei f a r m e r in salariati e di tutti «gli operai non organizzati delle città in proletari». Come scienziato e come diplomatico Dodd si considerò sempre servitore della verità. Si oppose fino all'ultimo con tutte le sue forze alla danza macabra cui intuiva si sarebbe giunti in conseguenza della «politica di appagamento», degli intrighi e delle titubanze. «Alla memoria del nostro caro padre, maestro, ed amico che in un'epoca di inganni tenne fede alla Democrazia», ecco l'onorevole dedica che il figlio e la figlia hanno premesso al Diario: «Quando nel futuro verrà scritta la storia dei nostri aggrovigliati tempi, questo Diario sarà considerato come una fonte primaria d'informazioni e come un documento di commovente umanità». Cosi Charles A. Beard ha scritto alla fine della sua prefazione. Ed ancora : «di William E. Dodd scienziato, maestro, scrittore e servitore della Repubblica si può qire adoperando una massima di Chateaubriand : Egli resterà nella memoria del mondo per quello che ha fatto in favore del mondo.» VOCABOLARIO «Abbiamo smarrito i nomi delle cose.» Razza. La parola razza esprime l'idea-forza della rivoluzione nazionalsocialista tedesca, ma non è di origine tedesca. La parola tedesca Rasse deriva direttamente dal francese race; come pure è accertato che i francesi l'han ricevuta dagli spagnuoli (raza) e gli spagnuoli a loro volta dai marocchini; questi infine, attraverso l'Africa del Nord e la valle del Nilo, dagli etiopi. Nella lingua amarica si trova dunque la radice più remota della parola razza, ed è ras, che significa nello stesso te.mpo: capo, gente, popolo comandato dallo stesso capo e della stessa origine. La lingua amarica essendo una lingua semitica, si deve constatare che la parola espriniente l'idea-forza della rivoluzione antisemita, è una parola semitica. Radicale. L'aggettivo radicale deriva dal sostantivo radice e perciò significa andare a fondo, non rimanere alla superficie, non contentarsi dell'apparenza, ricercare le radici o cause prime di un dato fenomeno. In politica l'aggettivo radicale significa (o dovrebbe significare): estremista, avversario inconciliabile delle mezze misure, dei palliativi, dei compromessi, partigiano intransigente di un programma rivoluzionario di cui si chiede la realizzazione integrale. Ma questo significato dell'aggettivo radicale sopravvive attualmente solo nella lingua tedesca; in italiano e in francese esso accompagna talvolta le denominazioni dei partiti democratici solo come un residuo dell'epoca in cui questi partiti erano rivoluzionari. Rispetto alla loro politica attuale, essenzialmente conservatrice e fatta di piccoli compromessi, di intrighi, di finte riforme, di tira-acampare, e di una folle paura di andare a fondo, di andare alle radici dei mali presenti, la denominazione di partiti radicali borghesi è dunque acerba ironia. Lo stesso destino hanno i figli degli anarchici che fanno carriera, diventano commendatori, mettono la pancetta e devono continuare a chiamarsi Spartaco. Unitario. L'aggettivo unitario deriva dal sostantivo unità e dal verbo unire e indica la qualità del mettere assieme cose o persone separate. E' un aggettivo piacevole all'orecchio e perciò molto usato. In politica esso serve spesso a mascherare il contrario, e cosi un gruppq di uomini che si organizza per provocare una scissione nel proprio partito, nel proprio sindacato, nella propria chiesa, non si chiamerà mai e poi mai gruppo scissionista, ma volentieri e di preferenza gruvpo unitario. Amgot. In lingua turca amgot significa sterco di cavallo. (Dal The New Stateman and Nation, fascicolo del 14 agosto 1943, pag. 101, seconda colonna.) Se l'avessimo saputo prima, ci saremmo risparmiati molto cattivo sangue. AVVISI Per soddisfare le numerose richieste, l'amministrazione ha introdotto un abbonamento trimestrale (per sei numeri); esso costa Fr. 2.- e deve essere versato al conto postale No. VIII 26 305. Invitiamo di nuovo coloro ai quali abbiamo inviato i primi numeri del giornale come saggio di volersi mettere in regola con l'amministrazione o di respingere altrimenti il giornale. L'amministrazione degli opuscoli è stata accomunata a quella dell'Avvenire dei Lavoratori. Le ordinazioni debbono quindi essere dirette all'amministrazione del giornale. L'AMMINISTRAZIONE.

Il Carattere della Rivoluzione Italiana 1 ° Come per il crollo dello stato zarista nel 1917, cosi per la messa fuori combattimento dello stato fascista nel corso della seconda guerra mondiale, si può affermare che la catena dell'imperialismo si è spezzata per prima nel suo anello più debole. La disfatta militare del fascismo è stata la conseguenza estrema di una serie di cause politiche, sociali ed economiche. Non è un esercito che è stato battuto, ma un regime. 2° La portata storica della sconfitta fascista si può misurare partendo da questa semplice constatazione: invece del bramato Impero, invece dell'egemonia sull'Africa. sul Mediterraneo e sui paesi adiacenti dell'Europa, l'Italia è stata scacciata dalle sue colonie, è priva di un esercito e di un governo centrale ed è stata eliminata dalla lotta per il futuro assetto dell'Europa, lotta che tuttavia prosegue sul suo territorio, combattuta dall'esercito tedesco e dagli eserciti anglo-sassoni. Questa congiuntura ricorda per molti aspetti lo stato della penisola italiana nel cinquecento, all'epoca delle lotte per l'egemonia europea tra la Francia, l'Impero e la Spagna, e nel settecento, all'epoca delle guerre di successione tra la Francia e gli Absburgo. L'analogia storica coincide perfino nel particolare che ora, come durante la guerra di successione di Spagna, i Savoia cercano di salvarsi passando disinvoltamente da satelliti di una coalizione alla coalizione avversaria. 3° Le vicende della partecipazione italiana alle lotte per l'egemonia europea e la spartizione dei mercati, nel 1915-1918 sotto una direzione politica liberale e nel 1940-1943 sotto la guida del fascismo, contengono un insegnamento fondamentale che ogni italiano intelligente dovrebbe meditare. La sconfitta subita dallo stato italiano come alleato dell'imperialismo tedesco nella seconda guerra mondiale, ravvicinata al trattamento inflitto alla borghesia italiana a Versaglia dagli imperialisti franco-anglo-americani, conferma in · modo definitivo l'impossibilità per il popolo italiano di sperare, sul piano dei rapporti internazionali imperialistici, con qualunque parte esso si schieri, quella posizione, quel ruolo, quel trattamento di grande popolo libero al quale esso profondamente aspira. L'Italia, come nazione, è interessata nella morte di tutti gli imperialismi. assoluta di tutti gli elementi di una determinata società quella che fissa i termini di una crisi politica, ma sono le contraddizioni interne della società stessa e il rapporto relativo tra l'elemento nuovo e rivoluzionario e le classi in declino. In Italia la demoralizzazione, il discredito, la disgregazione, il fallimento della vecchia classe dominante tolgono ogni premessa ai piani di moderate riforme. Nella crisi italiana sono posti non alcuni ma tutti i problemi della società e dello stato. Lo sbocco della crisi, se forze estranee non interverranno a coartare con 1J violenza la libera auto-decisione del popolo, sarà dunque la creazione di un nuovo ordine politico, sociale ed economico. 6° Il tratto caratteristico fondamentale della crisi italiana è nella coincidenza storica della rivoluzione democratica con la rivoluzione socialista. Queste due rivoluzioni, che i paesi più progrediti hanno avuto la possibilità di affrontare separatamente e a distanza di secoli tra l'una e l'altra, in Italia si presentano oggi simultaneamente per l'incapacità rivelata dalla borghesia italiana nel corso del 1800 di dare un carattere nettamente popolare e democratico al moto di risorgimento nazionale. Questo tratto caratteristico della crisi italiana è d'altronde comune ad altri paesi europei semiindustriali con residui d'istituzioni feudali. Ma numerosi altri elementi d'ordine sociale e culturale danno alla rivoluzione italiana un'impronta del tutto originale. I più notevoli di questi elementi sono: a) una struttura sociale molto più differenziata che negli altri paesi del medesimo grado di sviluppo economico; b) una intimità di rapporti assai stretta fra operai e contadini e fra i ceti intellettuali anche elevati e la campagna; c) una grande ricchezza di vita sociale autonoma nella famiglia, nel comune, nella regione, nella lega, nella cooperativa, nella camera del lavoro; d) una vasta esperienza di vita moderna dei paesi esteri più diversi acquistata da milioni di lavoratori costretti ad espatriare temporaneamente per guadagnarsi il pane; e) un'antica cultura umanista e universalista, più rivolta al mondo e all'Europa che alla penisola. Tutti questi fattori sono sufficenti per giustificare dus affermazioni: a) La rivoluzione che avrà luogo in Italia sarà una rivoluzione italiana, allo stesso modo, ad esempio, come in Russia ha avuto luogo una rivoluzione russa; b) la rivoluzione italiana avrà tali caratteri da lasciarsi facilmente integrare nella più vasta rivoluzione europea. 7° Le forze motrici del rivolgimento italiano anti-feudale e anti-capitalistico sono i partiti operai e i partiti democratici. Una coalizione duratura di questi partiti può assicurare al rinnovamento dello stato e della società italiana l'appoggio attivo della maggioranza della popolazione. Esistono cioè in Italia, attualmente, le •condizioni psicologiche. perché il rivolgimento politico e sociale- si svolga nel rispetto delle forme democratiche. Queste condizioni sono state create dall'inaudita oppressione e dallo sfruttamento sistematico ai quali i ceti medi della campagna e della città sono stati sottoposti durante venti anni di dittatura fascista da parte del grande capitale monopolista. I partiti democratici esprimono appunto il distacco dei ceti medi dalla grande borghesia. Dipenderà dalla politica dei partiti operai approfondire e rendere irrevocabile quel distacco. I partiti operai non devono fare il giuoco del grande capitalismo, non devono respingere i ceti medi e i partiti democratici che li rappresentano verso il blocco reazionario; in maniera del tutto particolare essi devono evitare che i piani socialisti di trasformazione economica contengano una minaccia di proletarizzazione per i ceti medi. I partiti operai devono abbandonare gli ingenui, astratti e anti-economici progetti di socializzazione ad oltranza e devono invece mobilitare tutti i ceti non capitalistici del paese «per l'espropriazione degli espropriatori» e la consegna al popolo dei latifondi e di quelle industrie ed imprese a carattere di monopolio che si sono impinguate col rastrellamento forzoso del risparmio nazionale e col saccheggio autarchico del mercato interno. Se il blocco progressivo dei partiti operai e dei partiti democratici, con l'appoggio della maggioranza del popolo e in regime di piena libertà, rimarrà compatto nella lotta contro il grande capitale monopolista e la grande proprietà terriera, in Italia si compirà una rivoluzione che potrà servire di modello ai popoli progrediti dei paesi occidentali perché per la prima volta l'esigenza del socialismo si vedrà conciliata con quella della libertà. 8° La rivoluzione italiana non potrà raggiungere tutte le sue mete che nell'ambito di una rivoluzione europea affine. Il socialismo nazionale è in Italia un'utopia. Bisogna dunque considerare la rivoluzione italiana come l'inizio della rivoluzione europea. Il coronamento politico della rivoluzione europea in gestazione sarà l'unità continentale. La rivendicazione dell'unità europea non è in contrasto con l'altra, essenziale nella rivoluzione italiana, delle autonomie locali e regionali e del federalismo funzionale. La limitazione della sovranità degli attuali stati nazionali comporterà un aumento di vera libertà per gli abitanti dell'Europa se essa avverrà non solo a beneficio dello stato europeo, ma anche dei comuni, delle regioni, e delle libere associazioni dei cittadini. 4° Al fallimento politico della classe dirigente italiana nei rapporti esteriori corrisponde un uguale fallimento nei rapporti interni. La grande borghesia italiana non è stata mai capace di stabilire tra sé e il popolo quei rapporti politici che si definiscono democratici. Il regno politico della grande borghesia italiana, dal 1860 ad oggi, è stato sempre caratterizzato dalla paura, dal compromesso, dalla corruzione, dalla violenza. Questi quattro elementi si ritrovano in modo costante, seppure in proporzione diversa, secondo le necessità, in tutte le formule politiche esperimentate in Italia durante gli ultimi ottant'anni. La paura e la sfiducia nel popolo hanno 1mpedito alla borghesia italiana di portare a termine, come nei grandi paesi dell'Occidente, la rivoluzione anti-feudale. Per falsare il funzionamento normale delle istituzioni democratiche essa non ebbe ritegno di cercare un appoggio politico sulle clientele elettorali dell'Italia meridionale e di stringere accordi segreti coi capi delle masse clericali. La borghesia italiana rinunziò senza esitazioni alle finzioni democratiche appena i successi dei partiti popolari minacciarono i suoi privilegi. Le responsabilità degli agrari e degli industriali italiani nelle origini e nello sviluppo del fascismo sono un fatto notorio, dagli stessi interessati ammesso, e fuori discussione. A parte qualche esiguo gruppo d'intellettuali, non c'è categoria della classe borghese italiana la quale non si sia più o meno compromessa con la dittatura fascista. In questo stato di cose non c'è da meravigliarsi se, nel momento della prova suprema imposta dalla guerra, il popolo italiano, oppresso e dissanguato dalla dittatura fascista. abbia rifiutato di fare causa comune con l'odiata classe dominante. E' necessario di rivendicare al popolo italiano l'onore di aver precipitato col proprio coraggioso atteggiamento disfattista la sconfitta militare dello stato tirannico. I Sociali~ti e la <<Dla~~a>> 5o La debolezza della struttura economica e sociale italiana e la relativa arretratezza del paese rispetto alle grandi nazioni industriali, non devono indurre nell'errore di considerare limitate le possibilità di sviluppo dell'attuale crisi italiana o di attribuire scarsa importanza alle sue soluzioni. Un simile errore di valutazione fu commesso nei riguardi della rivoluzione russa. Anche nel 1917 fu preteso, perfino da sedicenti marxisti, che in un paese arretrato come l'ex-impero degli zar la rivoluzione dovesse necessariamente limitarsi ad eliminare quegli ostacoli che gli avevano impedito l'accesso alla moderna civiltà capitalistica. Per ciò che riguarda la Russia gli avvenimenti hanno in seguito dimostrato che non è l'evoluzione Il buio addensato attorno alle masse popolari non è di tenebre naturali; un insieme veramente «massiccio» di menzogne, di spudorata demagogia, di «diseducazione» ha funzionato per anni con spreco di mezzi enormi ed abilità non comuni per portare i popoli europei a quella «temperatura» (come diceva Mussolini) in cui hanno pieno effetto i miti del millennio totalitario; gli organizzati deliri di dedizione a un idolo vivente; le calunnie più forsennate contro uomini, partiti, classi sociali, «razza» ; la promessa di magnifiche prede dopo un non meno radioso sfoggio di eroismi guerrieri. Per il rinnovamento del socialismo sarà di primissima importanza l'avere una coscienza chiara del fatto: che è relativamente facile eccitare, sommuovere, traviare, terrorizzare, imbestialire le «masse», con l'antichissima arte del demagogo il quale per intuizione trova la parola ed il gesto adatti a suscitare l'orgasmo collettivo, a risvegliare e esaltare speranze, ogni conato di ragionevolezza; mentre è molt0 difficile e troppo spesso trascurato dagli uomini che sostengono una parte responsabile nella vita pubblica, lo sforzo per conoscere esattamente i sentimenti, l'orizzonte mentale, i desideri profondi degli esseri umani che compongono le «masse». Questo contrasto fra demagogia e ricerca di una vera «volontà generale» - come fu sentito profondamente da Filippo Turati - corrisponde agli opposti obiettivi: di una massa dominata da «un'autorità che procede dal centro verso la periferia» e di un vero popolo in cui le decisioni matureranno «procedendo dalla periferia verso il centro». Dobbiamo tener conto delle modificazioni avvenute nel popolo in questi ultimi tempi. Vi sono anzittutto i grandi cambiamenti che il progresso tecnico, l'urbanismo moderno, la soppressione dell'analfabetismo, le istituzioni democratiche hanno operato nel tenore di vita ibliotecaGino Bianco ~ e nella psicologia degli «uomini del popolo» che di solito costituiscono la cosidetta massa. Ai tempi del «Manifesto Comunista» e della Prima Internazionale, che erano pure i tempi dei «Misteri di Parigi» e dei «Miserabili», le condizioni di esistenza nei quartieri operai dea terminavano una certa trasparente semplicità di reazioni sentimentali, di mozioni morali, di idee sul mondo come è e come dovrebbe essere. Il popolano di oggigiorno (ma questo termine stesso di «popolano» appare subito un anacronismo), lettore della grande stampa, frequentatore del cinematografo, assuefatto a meccanismi estremamente complicati, edotto di una quantità di dicerie sensazionali, spesso assurde, su uomini e paesi, consapevole dei suoi diritti di cittadino e non più segregato da molte «tentazioni» della civiltà, ha una visione della vicina e lontana realtà molto più vasta, molto più confusa e si può dire «sofistica»; nel senso che surrogati di quasi-scienza teorica, di quasi-esperienza pratica di cose disparate vi ingombrano parecchio posto. Sulla traccia di etnologi (soprattutto della scuola di Malinowsky), i quali solo recentemente sono riusciti con metodi minuziosi e pazientissimi a darci un'idea più esatta della mentalità e dell'intima infrastruttura sociale di popoli detti primitivi, giovani studiosi in America e in Inghilterra hanno applicato gli stessi procedimenti ad indagini sull'esistenza quotidiana, convinzioni, pregiudizi, modo di giudicare gli eventi del giorno presso le varie classi sociali in grandi città, in provincia, in villaggi dei paesi moderni più evoluti. Ne sono risultati parecchi volumi estremamente istruttivi di «Mass-Observation». Citeremo come esempio minore di mole ma assai curioso la registrazione fedele di reazioni del popolo di Londra alle notizie su la situazione mondiale quando Chamberlain andava a trovare Hitler per mercanteggiare l'abbandono della Cecoslovacchia ed impediva già la minaccia di una guerra europea. L'impressione più generale che rimane dopo la lettura di questo o di altri documenti del genere è che fra le ufficiali manifestazioni di una supposta «opinione pubblica» ed i reali sentimenti e pensieri della gente che pur dovrebbe contribuire alla formazione della suddetta opinione corre un abisso incolmabile. Nei primi tempi del movimento operaio ogni propagandista, ogni fondatore di un sindacato doveva affiatarsi nel modo più cordiale con i proseliti che riusciva a convertire: li conosceva uno per uno e l'organizzazione procedeva da un consenso esplicito e attivo. E' naturale che un partito che conquista milioni di voti alle elezioni, in una federazione che conta centinaia di migliaia di tesserati, i dirigenti responsabili, sovraccarichi di lavoro, assediati da impegni urgenti, non vedano più i compagni che riuniti in «massa}) e non abbiano più tempo per rapporti con essi che non siano di «servizio». Il successo di una campagna elettorale, di un comizio, di uno sciopero, di un concordato esige la rapidità delle decisioni e quindi semplificazione di parole di ordine, di argomenti persuasivi, di obiettivi immediati. E la m a s s a non interviene più come tale, cioè con l'irruenza, l'instabilità, i subitanei entusiasmi e collassi caratteristici per ogni «psicologia delle folle». Ai socialisti non può bastare di essere seguiti in questo modo da grandi numeri statistici. Nella risorta Internazionale e nelle sue sezioni sarà necessaria l'attiva manifestazioni di una coscienza di classe non già supposta come una specie di «mistica» connaturata alla condizione del proletariato, ma effettivamente elaborata in ciascuno con personale sforzo di pensiero, rafforzata da profondi, umani legami con i compagni di lotta, sviluppata da un continuo lavoro di educazione, di selezione. E bisognerà pure trovare il modo affinché i rapporti fra «elementi di base» e militanti «responsabili» non degenerino in una gerarchia di funzionari da un lato e dall'altro in schiere di gregari invitati a mantenere una disciplina quasi militare e ad applaudire nelle adunate e «sagre» rosse gli oratori del partito. Gli organi centrali del partito devono collegarsi in modo diretto con i nuclei fondamentali del proletariato. Le maestranze delle grandi fabbriche devono essere rappresentate direttamente nel comitato centrale del partito. Una direzione del partito composta esclusivamente di avvocati, di oratori, di p!'ofessionisti della politica, tende naturalmente a comportarsi con la massa secondo l'antico malcostume. I criteri che hanno presieduto nell'agosto del 1943 alla nomina della Direzione del partito socialista di unità proletaria sono stati troppo «elettoralistici», si è cioè tenuto conto eccessivo della notorietà dei compagni a scapito del criterio della loro fidatezza politica, della loro coerenza, del loro costume socialista. E' indispensabile segnalare la riposta grottesca data da uno dei «dirigenti» al delegato di una importante organizzazione regionale che chiedeva l'integrazione degli effettivi da lui rappresentati nei quadri del partito unificato: «Ma chi siete voi? Non c'è tra voi una sola personalità conosciuta!» Per creare in Italia una nuova atmosfera politica è indispensabile eliminare dai partiti antifascisti ogni criterio gerarchico e articolare la volontà politica del paese in modo che dalle fabbriche, dagli uffici, dalle scuole, dai villaggi salgano direttamente al centro e vi prevalgano, i voti, i desideri, le mozioni, le proposte, i postulati, di libere e coscienti comunità. Cosi l'indistinta massa cederà il posto al popolo. Ma, per cominciare, bisogna organizzare in tal guisa la stessa struttura dei partiti antifascisti, le assemblee e i congressi. Nell'interno del partito socialista noi non ammettiamo il ducismo! LETTERE «Il tono elevato del giornale ci fa piacere, ma esso permette difficilmente d'interloquire. Dovresti sollecitare i lettori ad esprimere la loro opinione, se non per mezzo di articoli, a1meno per mezzo di lettere.» «Le cose che tu scrivi io le pensavo già, ma non osavo esprimerle credendo che dal punto di vista socialista fossero delle eresie. Mi fa piacere di vedere che sono in buona compagnia.» «Trovo insopportabile che vi siano ancora dei socialisti i quali mettono in discussione l'esistenza del loro partito. Se vi è qualche socialista favorevole alla fusione col partito comunista, non ha che da aderire al partito comunista e lasciarci in pace. Se vi sono dirigenti del partito socialista cosi sleali da meditare un piano di liquidazione del partito è indispensabile smascherarli a tempo. Conoscete anche voi la storia del cavallo di Troia.» «Evitate polemiche e mandateci degli scritti di propaganda elementare.» Redattori: Or. WERNERSTOCKER,Zurigo; PIERRE GRABER,Lausanne;ELMOPATOCCHI,Bellinzona Druck: GENOSSENSCHAFTSDRUCKEREI ZORICH

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